mercoledì 27 marzo 2013

Is Democracy fooling you?

"La differenza tra dittatura e democrazia è che in democrazia prima si vota e poi si prendono ordini, in dittatura non dobbiamo sprecare il nostro tempo andando a votare". (Charles Bukowski)
La cosa ha cominciato a puzzare quando si è parlato di esportarla con le bombe, la democrazia, e poi lo si è fatto davvero in Iraq e non solo. Ricordo il dibattito strapilotato e capzioso che all'epoca, per mesi, rimbalzò sui giornali, in primis Il Foglio, per convincere l'opinione pubblica che non era una porcata tale e quale come appariva, ma una scelta necessaria e perfino virtuosa. Esportarla equivaleva a celebrarla. E già non aveva più niente di umano né filosofico, la democrazia, ma venne così trasformata in ideologia pura; il retropensiero, neanche tanto nascosto ma anzi dichiarato, era: "tutti hanno il diritto e il dovere ad avere una propria democrazia, a costo di ammazzarli". Quanti morti ha fatto, la democrazia? Non c'è un qualche "libro nero" che li abbia contati? Poi, negli ultimi vent'anni o giù di lì, nel nome della democrazia si è portato avanti un disegno repressivo totale, sempre all'interno di un'ottica del tipo "non disturbare il manovratore", legittimato da elezioni sempre più sfilacciate, con una legge elettorale ridicola e un astensionismo sempre più elevato e mai tenuto in considerazione, con l'unico scopo di impadronirsi della cosa pubblica per spartirsela poi fra massoni, politici, tenutari vari (di giornali, di banche, di aziende), ereditieri, micro potentati regionali, comunali e familistici, mafiosi, religiosi, lobbyisti e immanicati vari. Agli occhi dei cittadini-servi, noi, le peggiori porcate sono state fatte passare come "necessarie" per un fantomatico Bene Superiore (Governo Monti, asservimento ai diktat europei) o come colpa di altri partiti, altri poteri non meglio identificati. Così nessuno si è preso mai la responsabilità di niente, nemmeno quella di aver perlomeno appoggiato negli anni una politica che ha portato, fra le altre cose, a bruciare un'economia ricca precarizzando e togliendo opportunità di sviluppo a intere generazioni, annichilito turismo, arte, cultura, identità civica e quant'altro rendesse speciale e bello questo Paese. Sviare l'attenzione sulle minchiate, sulle polemicuccie, sui detti e non detti, sulle dichiarazioni dell'uno o dell'altro, fare il processo alle intenzioni, pilotare i media, ridicolizzare ciò che porta il germe del nuovo o del differente, sono le armi che vengono usate a questo scopo. Questo a grandi linee, per riassumere, è il quadro. Nello specifico, si è preso qualcosa che nasceva come buono e giusto, la democrazia, per piegarla e piagarla. Succede sempre così, in effetti, a farci caso, con ogni cosa potenzialmente bella e vera: si prende l'entusiasmo giovanile e lo si piega a squallidi fini economici o politici, si prende la moda dalle strade e la si trasforma in capitale per i profitti della moda, si prendono le istanze dell'ecologia e della sostenibilità per farne un nuovo mercato, si prende l'arte e la si musealizza; al contempo, per buona misura, si svilisce o addirittura si persegue qualsiasi autentica espressione del Sè e della libertà creativa individuale che non rimanga all'interno di queste logiche di sfruttamento e prostituzione. Come chiamare questo sistema, capitalismo? Patriarcato? Società dell'immagine e del consumo? Qualsiasi sia il nome, è quel sistema che perverte ogni cosa che tocca e che apparentemente si è dato per gestirsi delle "regole democratiche". All'interno di questo sistema e di queste regole, ci è stato inculcato che bisogna vivere nell'ottica o di dover chiedere il permesso (lo chiamano "restare nella legalità") o di soccombere e sparire, perchè si viene privati delle risorse per andare avanti. Si viene isolati. Ma il giochino si sta inceppando. Per qualche motivo, per qualche congiunzione astrale forse, non piace più a molti. Si è arrivati a un punto per cui in tanti, anche insospettabili, stanno cominciando a chiedersi: "MA PER QUALE CAZZO DI MOTIVO CHE NON SIA LA PAURA DOVREI DIFENDERE E VOLER MANTENERE LO STATUS QUO?" Chi lo difende e vuole mantenerlo, al punto in cui siamo, sarà probabilmente o uno che ancora riesce a mangiarci per bene, o un pavido, o un vecchio. E certo questo è un paese pieno di vecchi, pavidi e arraffoni. Per molti è la morte delle illusioni. Siamo cresciuti tutti col mito della democrazia nata dal popolo, della rappresentanza, del partito, del sindacato. Per molti è difficile pensare che questo mito, così ragionevole e idealizzato, che ha nutrito per decenni tante speranze e per la quale si è versato sangue, ora sia diventato un'ideologia come un'altra, un'ideologia basata su speranze del passato che però, qui e ora, stanno uccidendo qualsiasi speranza per il presente e per il futuro. Riconoscere questa realtà significa, forse, smettere di essere vecchi o pavidi o arraffoni. Ma molti ucciderebbero piuttosto che vedere davvero come si sono ridotti, in cosa si sono trasformati. Molto meglio continuare a infervorarsi, discutere, distribuire giudizi e dare colpe all'altro, che non è abbastanza "democratico" o "di sinistra" o che è "fascista" o che "rema contro il partito" o che è "populista" o che non è "responsabile" o che... Qualsiasi cosa per prendere tempo, per restare ciò che si è, per mantenere vivi riferimenti ormai morti, che non servono a nessuno anzi fanno male, come iniezioni di steroidi nel corpo di un settantenne, come viagra per continuare a fare quello che non è più neanche sesso ma necrofilia, come una celebrazione continua del proprio corpo sociale e politico ormai in decomposizione. Come una mummia che si tiene in salotto, come un teatro di maschere o qualsiasi altra cosa corrotta e decomposta possa venire in mente. La democrazia è diventata un'altra faccia di quello stesso mostro contro il quale si voleva combattere. E tutto questo è reso possibile in massima parte da un adagio, da un mantra che passa di bocca in bocca, una di quelle cose che a forza di ripeterle diventano la verità, una di quelle frasi apparentemente innocue ma invece profondamente feroci, che si è sedimentata negli animi fin dalla nostra infanzia e che si è traformata in dogma, qualcosa che zittisce e a cui non si può ribattere, da cui anche la maggior parte dei giovani non sono ancora riusciti a distaccarsi e finché non lo faranno non ci sarà mai una reale evoluzione; e questa frase, all'interno di una discussione qualunque, suona più o meno così: "la democrazia sarà imperfetta, ma è pur sempre il migliore sistema che l'uomo si sia mai dato, L'UNICO POSSIBILE". Questa frase è violenza.

lunedì 26 marzo 2012

ROBERT MAPPLETHORPE



Fondazione Forma per la fotografia, p.zza Tito Lucrezio Caro, 1 Tel. 0258118067
Dal 2 dicembre al 9 aprile 2012

Una retrospettiva di Robert Mapplethorpe, dagli esordi con le Polaroid fino ai grandi ritratti di personaggi celebri, è un salto nel tempo, direttamente nella New York anni ‘70 e ‘80: gli anni della pop art, della liberazione sessuale, dell’esplosione della performance e della body art.
Mapplethorpe diventa l’artista della scena underground della metropoli americana, ma ciò che cerca non è la trasgressione fine a se stessa, quanto la rappresentazione dell’inedito culturale e artistico, che viene immortalato con un’estetica classica e senza tempo.

Fotografare in quegli anni era perfetto, perché era un tempo dove tutto scorreva molto velocemente e in qualche modo andava fermato: così la serie di autoritratti, come fulminanti visioni di sé. Mapplethorpe truccato come Ziggy Stardust, o come una pornostar che fa uso improprio della frusta. Nel 1988, solo un anno prima della morte preannunciata dalla diagnosi di AIDS del 1986, che all’epoca significava una condanna a pochi anni di vita, il presagio diventa iconico nel bastone sormontato dal teschio con cui Mapplethorpe si fotografa e che infine prende il sopravvento, diventando protagonista nell’ultimo scatto della serie.

Il corpo maschile viene per la prima volta celebrato, come non si vedeva dai fasti della statuaria greco-romana: la perfezione della forma, esaltata dalla luce e da un potente bianco e nero, ricerca un ideale di bellezza classica. I corpi costruiti all’interno di figure geometriche si prendono tutto lo spazio e lo riempiono di plasticità e significato vitale, come moderni studi anatomici leonardeschi. La ricerca sulla perfezione del corpo approda nel dettaglio, con la serie dei peni in primissimo piano che fuoriescono dai calzoni o che svettano di fianco a pistole.

Il sodalizio artistico e l’amicizia con Patty Smith si esprimono in una serie di ritratti di tutt’altro genere, dove la cantante viene rappresentata come una musa, spiritata e austera: il fotografo ne esalta le bellezza febbrile, l’eleganza delle mani sempre presenti nell’inquadratura, in una rappresentazione androgina che richiama l’idea di un essere fatato e misterioso. Un morbido grigio assicura la dimensione onirica ad immagini come quella in cui Patty trattiene due colombe sulle dita o si taglia una ciocca di capelli fissando l’obiettivo, con lo stesso sguardo del gatto immobile di fianco a lei.

È con la serie dedicata alla body builder Lisa Lyon che Mapplethorpe torna a celebrare la plasticità del corpo, in questo caso un corpo femminile con caratteristiche muscolari maschili, splendido esempio di dualità e sovvertimento visivo degli stereotipi, a cui forse l’artista associa un’idea divina dell’essere: Lisa Lyon è rappresentata con l’arco come Diana cacciatrice o come una divinità misteriosa, con un peplo a coprirne il volto, che esprime tutta la propria forza nelle braccia e nella postura, in quella che è diventata un’immagine celebre e che richiama il surrealismo di alcune opere di Magritte. Infine, Lisa Lyon riguadagna la normalità del proprio corpo femminile in scatti più rilassati e languidi, accovacciata su una spiaggia o adagiata senza più tensione in una stanza da bagno.

Non manca la parata di splendidi ritratti dedicati ai personaggi celebri della scena newyorchese, da Andy Warhol a Udo Kier, Donald Sutherland e Grace Jones: la loro rappresentazione è ironica e personale. Mentre la serie dei fiori torna a essere caricata di sensualità avvolgente, con le corolle chiare e gli steli che fuoriescono dal nero carico. D’altronde, Mapplethorpe stesso dichiarava che non era importante il soggetto, si trattasse di fiori o di cazzi: è tutta una questione di luce e di composizione.

(Foto: ©Robert Mapplethorpe Foundation. Used by Permission)

domenica 26 settembre 2010

Analisi di un mestiere


Le prostitute scatenano reazioni contrastanti, sempre.
I cittadini sbraitano se le vedono passeggiare sui viali di giorno: si preoccupano di cosa possono pensare i bambini. Poi la sera, percorrono quegli stessi viali in macchina. E i bambini, in televisione, vedono cosce e sederi esibiti come se fosse normale.
Ma che cos’è una prostituta? La parola è femminile, senza scampo.
La prostituta è una schiava. La prostituta è la prima donna indipendente della storia. La prostituta è una necessità sociale. La prostituta è una dea della notte. La prostituta è paradigma del patriarcato. L'unica cosa certa è che la prostituzione è stata, per secoli, l'unico mestiere accessibile alle donne, l'unico che consentisse un'entrata economica a una donna sola. E questo la dice lunga, in qualche modo.
Sentiamo ogni giorno notizie di donne costrette a prostituirsi con la forza, minacciate, ricattate. E’ un’ennesima faccia della sopraffazione e della violenza di genere, il racket del sesso, tale e quale a quello delle armi e della droga. Ma i clienti non si pongono il problema della schiavitù che contribuiscono a perpetrare. I clienti sono uomini senza volto. Possono essere tutti, e nessuno. Non ci sono percorsi di recupero, di reinserimento a una sessualità sana previsti per loro, né riprovazione sociale. Loro sono “normali” cittadini. Esiste il fenomeno della prostituzione, ma non della clientela della prostitute. Esiste il fenomeno della violenza sulle donne, ma non della incapacità maschile a liberarsi dalla modalità violenta. Eccetera, eccetera.
Ci sono prostitute che gestiscono da sé la propria attività di intrattenimento sessuale, libere da aguzzini o protettori di sorta. E che vivono il proprio come un normale lavoro, magari migliore di altri in cui si sgobba dalla mattina alla sera per pochi euro. E poi, ci sono donne che si fanno fare regali costosi dal “papi” di turno o che si lasciano ingabbiare in matrimoni convenienti. Ora ci vogliono far credere che questo sia il modello femminile vincente, rivendicato in televisione e sui giornali.
Ma la prostituta è più onesta. Lei ha a che fare con la parte oscura dei rapporti umani e della società.
Gli uomini che pagano per il sesso esercitano un potere, il potere d'acquisto, che spesso è anche l'unico potere loro rimasto. Rinunciano ben volentieri a ogni responsabilità rispetto al benessere e al piacere della partner, che diventa una sottoposta. Una prestatrice d’opera. La femminilità viene così circoscritta a livello di sfogo di una pulsione. Ma è innegabile che la prostituta abbia anche ispirato poesie, canzoni, teneri ricordi di gioventù. Ci deve essere qualcosa di rilassante in una professionista del piacere, qualcosa di archetipico che riguarda la coscienza collettiva: un dolce approdo di femminilità per chi ne è privo, una donna che non giudica, a differenza della Madre, e che accoglie con bonarietà il lato perverso che l'uomo si sente obbligato a nascondere agli occhi della Moglie e della società intera. Certo lui non viene pagato per fingere, mentre una prostituta sì.

domenica 25 aprile 2010

Le Bestie di Satana V Parte - I Fatti 2


Il 19 maggio Andrea Volpe è stato infine assolto anche dall’accusa di calunnia nei confronti di Nicola Sapone. Nonostante abbia accusato l’ex amico Sapone di un delitto che non poteva aver commesso (cfr. parte 1), i magistrati hanno deciso che il fatto non sussiste. Non si tratta di calunnia, ma di testimonianza resa per “sentito dire” e sempre, ovviamente, “in buona fede”. La maledetta, presunta “buona fede” di Volpe che ha condannato a quasi 30 anni di carcere Marco Zampollo, Paolo Leoni e Eros Monterosso per delitti che non hanno commesso. Infatti li ha commessi lui.

Bisogna dire che Nicola Sapone, intentando questo processo per calunnia, che avrebbe potuto far riaprire il processo principale (ma non è detta l’ultima, perché i legali di Sapone ricorreranno in appello), stesse lavorando soprattutto per loro. Perché con due ergastoli sulle spalle, lui di certo non ha grandi speranze di uscire, anche se il suo ruolo sarebbe notevolmente ridimensionato se e quando finalmente si smetterà di prendere per oro colato le dichiarazioni di Volpe. Ma è evidente che al Sapone proprio non va giù che il suo ex amico la faccia franca. Che non paghi fino in fondo per le sue azioni, scaricandole sugli altri. Certo è dimostrato che Sapone partecipò almeno al primo delitto, il delitto Tollis-Marino. Ma è alquanto improbabile che infierì sul corpo di Mariangela Pezzotta, come il Volpe ha voluto fortemente far credere (cfr parte 1). La pesantezza della condanna di Nicola Sapone deriva principalmente dal fatto che non ha mai collaborato con gli inquirenti e non ha mai confermato le tesi di Volpe, in sostanza quello che gli inquirenti volevano sentire: ha infatti sempre negato l’esistenza della setta satanica, nonché la sua posizione di presunto leader e non ha mai fatto i nomi di altri per alleggerire la propria posizione.

Tutto ha avuto inizio la notte del 17 gennaio 1998, quando Fabio Tollis e Chiara Marino spariscono dalla faccia della terra, dopo essere usciti di casa per passare il sabato sera, come al solito, al Midnight pub di Milano.
Nel 2004 il reo confesso Andrea Volpe permette il ritrovamento dei loro cadaveri nei boschi di Somma Lombardo.
Michele Tollis, il padre di Fabio, per 6 anni aveva investigato sulla scomparsa del figlio, da solo. Nessuno gli dava più retta. Tutti a dirgli che era stata una fuga d’amore. Ma era impossibile crederlo, per chiunque conoscesse Fabio. A seguito dell’omicidio di Mariangela Pezzotta, Michele Tollis ha la conferma delle sue ipotesi peggiori e capisce che Andrea Volpe è coinvolto. Finalmente, quattro mesi dopo essere stato colto in flagrante, Volpe si decide a collaborare. E fa nomi a palla, come ben sappiamo. Nessuno tratta più Michele Tollis da importuno, fra gli inquirenti: anzi, si pende dalle sue labbra. E qualsiasi siano i suoi sospetti, li si verifica con sollecitudine. Glielo si deve, dopo 6 anni in cui lo si è lasciato solo. Forse per eccesso di zelo ci si fa un po’ prendere la mano e non si aspettano riscontri per incarcerare diverse persone.

La sera dell’omicidio, Fabio fa un’ultima telefonata a casa verso le 23, per chiedere a suo padre se può dormire fuori. Permesso negato. L’ultima volta che lo vedono sta andando via in macchina con Andrea Volpe, Mario Maccione, Chiara Marino e Nicola Sapone. Dicono che vogliono andare al Nautilus, un localone rock in provincia di Varese.
Nel giro di un’ora Michele Tollis è davanti al Midnight per riportare a casa il figlio, ma non lo trova. Paolo “Ozzy” Leoni gli va incontro, cercando di tranquillizzarlo. Ma per l’accusa si è trattato invece di “depistaggio”, in quanto lui avrebbe saputo esattamente cosa stava per succedere. Marco Zampollo è dietro l’angolo a bere qualcosa al Memphis, un altro locale. Per l’accusa, si stava nascondendo dal padre di Fabio. Anche in questo caso, qualsiasi cosa faccia o dica lo Zampollo, sbaglia comunque. Monterosso era a passare la serata da tutt’altra parte.

La carovana, che non è mai arrivata al Nautilus, si ferma invece da qualche parte nei boschi intorno a Somma Lombardo, dove Pietro “Wedra” Guerrieri giorni prima aveva scavato una buca, insieme ad Andrea Bontade, che la sera dell’omicidio non si presentò e che fu in seguito, per questo motivo, “indotto al suicidio” dalla setta, secondo l’accusa.

Pietro “Wedra” Guerrieri pare fosse una specie di burattino nelle mani degli altri, una persona psicologicamente molto disturbata a causa dell’assunzione di cocaina e altre droghe protratta negli anni: era già passato per due ricoveri psichiatrici.
E’ il terzo “pentito” del gruppo, insieme a Maccione e Volpe, e ha reso anche lui una quantità di dichiarazioni che vanno a convergere sempre nello stesso punto: la setta esisteva, agivamo spinti dalla paura di essere uccisi dagli altri membri, eccetera eccetera. E’ stato condannato a 12 anni con rito abbreviato. Pare che il Guerrieri fosse affetto da manie di persecuzione: alcuni avventori del Midnight pub ricordano diversi episodi con “Wedra” protagonista, che sbrocca all’improvviso senza motivo apparente dandosi alla fuga, urlando contro i passanti, scaraventandosi fuori da macchine in corsa in preda al panico. Era una sorta di personaggio tragicomico, caratteristico del luogo, che vivacizzava certi sabati sera un po’ noiosi.

Quando la macchina arriva nel bosco, nei pressi della buca, avviene la mattanza. Fabio e Chiara vengono uccisi brutalmente, con numerose coltellate e colpi di mazza. Poi vengono gettati nella buca e ricoperti di terra. Pare si sia infierito sui cadaveri, orinandogli addosso.
Nel parlare di quella tragica sera Andrea Volpe, come suo solito, addossa gran parte della colpa a Nicola Sapone. E’ stato Sapone a infilare i ricci nella bocca di Fabio per impedirgli di gridare. E’ stato Sapone che gli ha ordinato di scendere nella buca per finire Fabio, ma lui, poveretto, non se l’è sentita. E così, è stato ovviamente Sapone a finire il lavoro sporco, dopo che Mario Maccione l’aveva iniziato. In effetti è quasi certo che fu Maccione a colpire per primo, tanto che nella furia omicida si ferì ad una mano. Sempre Sapone, avrebbe poi ballato sulla fossa gridando: “Ora siete zombie”.
E Volpe, invece? Lui ha dovuto tirare qualche pugnalata a Fabio, ma più che altro lo teneva fermo.

Secondo Maccione, al contrario fu proprio Volpe ad accanirsi col coltello su Chiara e poi sì, è vero che teneva fermo Fabio, ma intanto urlava di correre all’auto a prendere la mazza con cui finirlo. Maccione dichiara anche di essere stato drogato dagli altri e di non ricordare nulla, salvo poi ricordarsi dei particolari di cui sopra. Certo, lui non voleva uccidere nessuno. Tanto che arriva a dire che erano stati Fabio e Chiara, in preda a vero e proprio misticismo satanico, potremmo definirlo, a chiedere ai compari di essere immolati in sacrificio al principe delle tenebre.

D’altronde, Mario Maccione, che era minorenne all’epoca dei fatti e se l’è cavata con 19 anni con rito abbreviato, è colui che si è sempre autodefinito un medium.
Non è certo tipo da farsi molti scrupoli, in nessun senso, tanto che la sera dopo l’omicidio ha dormito tranquillamente nel letto di Fabio, suo amico d’infanzia.
Lui e Guerrieri sono le due pedine nelle mani di Volpe: sono loro che assicurano una parvenza di riscontro alle dichiarazioni di quest’ultimo. Ma è del tutto logico, considerando che sono stati rinchiusi tutti e tre nello stesso carcere di Busto, dove avrebbero potuto tranquillamente concordare una versione comune, diversamente da Sapone, Leoni, Monterosso e Zampollo. Cosa c’era di meglio per questi due gregari, terrorizzati dalle conseguenze delle loro azioni, se non di seguire (a modo loro, cioè a casaccio) le indicazioni del capo, come avevano sempre fatto fino a quel momento? Quando il capo ti garantisce, e a ragion veduta, che solo così c’è speranza di cavarsela tutti quanti in pochi anni, lasciando a marcire in carcere qualcun altro?
Perchè farsi scrupoli, dopo che si è dormito nel letto di Fabio?

Maccione è il fantasista del gruppo. Lui si preoccupa solo di dire panzane sui demoni che gli parlavano o sugli assurdi moventi che avrebbero spinto il gruppo al duplice omicidio. Oltre alla versione dell’immolazione spontanea delle vittime, il vero colpo di genio è quello in cui Chiara sarebbe stata uccisa su ordine dei demoni perchè “incarnava la Madonna”. Non apettatevi mai una ricostruzione men che improbabile da parte di Maccione, delle cose “serie” si occupa infatti, in qualche modo, Andrea Volpe. Il compito di Maccione è di spararle grosse, in una sorta di strategia autodifensiva demenziale (ma evidentemente efficace), del tipo “più ci credono sciroccati meglio è per noi”.

Una delle sue ultime boutade in ordine di tempo è quella (ovviamente ripresa come oro colato dai mezzi di comunicazione) in cui le vittime della setta satanica sarebbero ben 18. Ma lui lo dice solo ora, perché prima il suo cervello era annebbiato dalle droghe che ha assunto per anni, solo adesso inizia a ricordare. Peccato non sappia mai dire chi sia stato ucciso, né come, né dove. Le droghe, vostro onore. Intanto, si è scavato a caso in mezza Brianza, inutilmente.

Comunque, il teorema preso per buono, alla fin fine, è quello secondo cui non ci si poteva allontanare dal gruppo senza pagare con la vita. A questo proposito, sarebbe interessante chiedere a tutte le persone che negli anni sono entrati e usciti dal gruppo in questione, cosa ci facevano tutti vivi e vegeti a testimoniare in tribunale dettagli importantissimi del tipo: “Sì, in effetti tizio e caio erano strani…” Uno è assurto al ruolo di teste fondamentale per aver dichiarato che Leoni ce l’aveva con lui per qualche vecchia ruggine e che la volta in cui lui provò a rivolgergli la parola in segno di pace, quello gli avrebbe ringhiato contro.
Questo teste può ora sicuramente dormire sonni tranquilli, senza ringhi di sorta.

Va detto però che la cosa più inquietante di Maccione è che in realtà lui ce l’ha a morte con Volpe. Proprio non lo può vedere. E sebbene si sia accodato alla tattica del capo, ogni tanto vorrebbe, con le sue deboli forze, far intuire che la verità è un’altra. Ma niente pare possa più scalfire questo gigantesco castello onirico-giudiziario in cui sono tutti invischiati, giudicati e giudicanti. Lui ci prova, dichiarando ad esempio (nel corso dell’interrogatorio del 13 ottobre 2004) che la situazione nel gruppo sarebbe degenerata in seguito all’arrivo di Volpe, sia per quanto riguarda l’uso di droghe che per la nascita di continue tensioni interne; Leoni, invece, sarebbe descritto come un semplice megalomane esibizionista e narciso. Tutt’altra versione insomma, rispetto a quella di Leoni capo carismatico senza pietà a cui tutti devono obbedienza.

Sono sempre di Maccione le parole intercettate in cella che discolpano “Ozzy”, Eros e Marco (cfr. parte 1) e che insinuano il dubbio che Volpe stia facendo solo il proprio gioco, coinvolgendo più gente possibile. E ancora, non appare un caso che faccia rivestire proprio a Volpe il ruolo più scatenato nell’uccidere Fabio e Chiara, quello che guidava l’azione. Anche Elisabetta Ballarin sosteneva che la furia omicida di Volpe era inarrestabile, la sera dell’omicidio di Mariangela, e che Sapone non c’entrava per nulla.
Comunque la si giri, si torna sempre allo stesso punto.

Ma se è tutto campato in aria, allora quale sarebbe il vero movente dell’omicidio Tollis-Marino?
Perché un movente c’è ed è decisamente più concreto rispetto ai presunti deliri satanici.
Il movente è vecchio come il mondo: i soldi.
Consideriamo che abbiamo tre assassini che sono, in primo luogo, tre tossici.
Volpe tossico era e tossico è rimasto, anche nell’abilità di mentire e dare la colpa agli altri, come tutti i tossici di professione. La sua carriera di tossico ha il suo fulgido culmine nella serata al massacro con la Ballarin e nell’omicidio di Mariangela, da cui era solito succhiare soldi per la droga (cfr. parte 1).
Maccione aveva smesso di essere lucido probabilmente subito dopo la scuola dell’obbligo: a 16 anni era già un consumato sperimentatore di droghe, in particolare sintetiche, specie nell’ultimo periodo sotto la guida di Andrea Volpe, per sua stessa ammissione.
Sapone evidentemente, se era lì quella sera con quei due, non disdegnava le droghe, e men che meno i soldi.

I soldi li aveva Chiara Marino. Erano 188 milioni di lire che aveva incassato dall’assicurazione per un incidente in motorino occorsole qualche anno prima e che ora poteva finalmente ritirare.
Non erano un mistero, quei soldi, Chiara ne aveva parlato con tutti.
E dunque, perchè non supporre che tre tossici mezzi sfaccendati abbiano portato una ragazza di notte in un bosco, una ragazza che potenzialmente poteva valere 188 milioni di lire, per ottenere da lei questi soldi? E che la buca scavata in precedenza, potesse magari far parte della strategia intimidatoria, grezza quanto i suoi ideatori, ossia quella di spaventare la Marino minacciandola di morte per farsi consegnare quello che volevano, cioè i soldi?

Partendo da questo presupposto, niente di più facile che poi la situazione sia degenerata, considerate le condizioni perlomeno alterate degli attori principali e l’intervento di Fabio che si è messo di mezzo, di traverso ai loro piani. Perché Fabio era un ragazzone grande e grosso, un gigante buono, a detta di chi l’ha conosciuto e giusto perché erano in tre e scatenati gli assassini hanno potuto aver la meglio su di lui.
Il quadro risulta così chiarissimo: se metti insieme tre tossici strafatti che vogliono arrivare ai soldi, una ragazza urlante che rifiuta di intendere ragione e un ragazzone che perde le staffe e inizia a menar le mani, non può che finire come in effetti è finita. Ma no. E’ colpa di Satana.

La cosa incredibile è che in Tribunale non si sia mai tenuta in considerazione la questione dei soldi dell’assicurazione di Chiara Marino. Se n’è parlato forse in una delle udienze iniziali, se n’è accennato solo in un paio di articoli di giornale prima che l’ossessione satanica via cavo occultasse ogni tentativo di analisi razionale, prima che le dichiarazioni di Volpe sommergessero i fatti di incongruità, illazioni, insinuazioni gratuite e inutili spacciate per verità.
Ma poi i soldi, che motivazione banale. Chissà di quanto lavoro sarebbero stati privi degli onesti cittadini, su cosa avrebbero disquisito onesti opinionisti e giornalisti, a toglier loro di sotto il naso questo nuovo e succulento marchio de “le Bestie di Satana”.

mercoledì 3 marzo 2010

Il Social Network ci sopravvivrà


Facebook a una prima analisi può essere considerato poco più che un che un gioco di ruolo collettivo per adulti, con regole tutto sommato semplici e che, come spesso succede, viene demonizzato e caricato di aspettative agli esordi, per essere infine accettato e perdere gran parte del suo fascino in seguito.
Ma Facebook non si analizza, si vive.

Si entra dentro Facebook fondamentalmente perché gli altri ti trascinano.
Alla centesima volta in cui ti viene chiesto se sei su Facebook e ti accorgi che nessuno si scambia più i numeri di telefono, ad esempio. Ma poi, perché dovrebbero? E' molto più facile e indolore cancellare dal pc un contatto che diventa sgradito, piuttosto che infilarsi nella trafila per cambiare numero di cellulare. Nel frattempo, ti sei già accorto da un pezzo che gli amici si passano informazioni di cui sei costantemente all'oscuro e che vengono organizzate serate in tempi record senza che tu ne sappia nulla, se non all'ultimo minuto e solo perché qualche anima pia si ricorda di te, povero non-connesso. E anche tu ti convinci che in fondo, visto che si può evitarlo, non c'è motivo di arricchire le compagnie telefoniche continuando a scambiarsi gli sms più cari d'Europa.

Gli stessi amici continuano a infierire, raccontando cosa si sono detti in chat con il vostro comune ex compagno di classe che si è trasferito a Londra, e ti accorgi che anche a te farebbe piacere risentirlo. Anche se non lo pensavi da anni.
Tutti poi hanno visto le fotografie della serata che avete trascorso insieme, o il figlio appena nato dell'amica che sta a Roma. Tutti commentano ciò che ha scritto qualcun altro nel suo status o il video che hanno condiviso. Tranne te.

E alla fine ti iscrivi. Sì, poi sei costretto a ridere a denti stretti quando i comici in tv dicono cose divertentissime tipo: “Ma se non ci sentiamo da 20 anni ci sarà una ragione, perché ti devo volere come amico su Facebook???” Risate del pubblico. Tutti privi di account Facebook? Ma niente affatto. Si ride di sé stessi, ma tutti quelli fra il pubblico che hanno il loro account avrebbero voglia di dire all’ennesimo comico dell’ennesimo programma cabarettistico clone di tutti i precedenti, almeno un paio di cose. Intanto, che possono essere davvero molti i motivi per cui ci si perde di vista e se c’è il modo di poter riallacciare non è raro avere belle sorprese.
E poi, per favore, basta con questa “satira” indolore e ripetitiva, con l’eterna messa in scena dell'italiota 'gnurante ma di buon senso, che al posto di rivelare banalizza.

La forza di Facebook è in questa sua propagazione inarrestabile. Forse è l'idea del profilo ad essere accattivante, la possibilità di creare una propria pagina dove condividere i propri gusti, le passioni, gli album fotografici. Una sorta di blog, ma con meno pretese e disponibile a tutti. Chiunque infatti può essere trovato o chiedere l'amicizia a un altro, non c’è bisogno di conoscere un link specifico, ma solo sapere un nome e un cognome. C’è una sorta di fascinazione, nel cercare e nell’essere cercati, nell’ignorare o approvare un’amicizia.

Facebook è anche un mezzo per incontrarsi, per passare dal virtuale al reale. Gli “amici”, ossia i contatti di chi ha creato un proprio account, possono essere centinaia, ma poi la cernita è inevitabile, come nella vita reale. Alla fine ci si scambia messaggi e si organizzano eventuali incontri solo con pochi, i più affini, mentre tutti gli altri saranno semplici spettatori di ciò che scorre nella nostra vita, anzi, di ciò che decidiamo di caricare on line, della nostra vita. Una sorta di taglia e cuci creativo, una vetrina emozionale. Con la consapevolezza che molti ben presto si stuferanno talmente tanto che sceglieranno l'opzione “Nascondi” per non visualizzare più le nostre news sulla loro homepage. Sempre che non lo abbiamo fatto prima noi.

E' un gioco per adulti, dicevamo, che ha una sua utilità e anche una sua futilità intrinseca. Rappresenta molto e molto poco allo stesso tempo. Se partiamo dal molto, può aiutarci a focalizzare alcuni aspetti che caratterizzano la società contemporanea: ad esempio, che i giovani adulti 30-40enni (ossia la gran parte degli utenti di Facebook) hanno tutta l'intenzione di continuare a giocare ad libitum e non riescono a trovare nessun motivo per pensare che è ora di smettere. Un pessimista estremo direbbe che lo stesso avveniva sul Titanic, con l'orchestra che continuò a suonare fino al naufragio, dopo aver incocciato l'iceberg.
Se partiamo dal molto poco, ci basta la sua definizione standard, che è quella di “Social Network”: semplicemente un modo per mantenere e/o ampliare i propri contatti sociali.

Ma è chiaro che Facebook rappresenta ai suoi massimi livelli anche l'attuale ossessione per la comunicazione di sé stessi. Questo desiderio di mostrare i propri viaggi, le proprie foto, i propri pensieri, e di annettere un gran numero di “amici” con cui condividere il tutto, parte dall'ansia dell'individuo atomizzato, sperduto nella società, orfano di spazi di aggregazione e identità collettive, ideologiche e non, che sente di esistere davvero solo tramite la propria immagine inviata nell'etere e i contatti che acquista on line.
Sono connesso, quindi esisto. Posso lanciare il mio sasso nello stagno, la mia bottiglia col messaggio nel mare di Internet, che non butta via niente. Un giorno qualcuno, con una banale chiave di ricerca, vedrà una mia foto, un mio scritto. Si tratta di lasciare una traccia, mica robetta.
Internet ci sopravvivrà.

La privacy è a rischio, certo. C’è chi parla di schedatura volontaria di massa. Molti utenti non conoscono le precauzioni basilari per condividere le informazioni proteggendo la privacy, evitando di dare in pasto tutti i propri dati a chiunque si affacci online. Eppure, l'ansia di partecipare, di esserci, fa correre il rischio. Un rischio virtuale, ma fra virtuale e reale il confine non è mai stato così labile. All’altro estremo, ci sono i dietrologi, convinti che la Cia o chi per lei rastrelli ogni dato per tenerci d’occhio tutti quanti, ergo non si iscriverebbero mai.

Una delle caratteristiche di Facebook più analizzate dai media riguarda i gruppi che si creano su tematiche socio-politiche e le polemiche che molti di questi si portano dietro trascinano con sé.
Non è raro che titoli di giornale e analisi sociologiche, per riempire i vuoti, prendano a campione questi gruppi con lo scopo di mostrare le tendenze della popolazione “connessa”, identificata un po’ arbitrariamente con i “giovani”. Così Ed ecco che ai giovani, con poco sforzo, pare di esercitare una sorta di influenza sulla società. Ma anche questa, alla fin fine, è virtuale, eppure concreta allo stesso tempo, tanto quanto lo possono essere i titoli di giornale e coloro che li leggono.

Facebook riesce anche a creare veri e propri eventi, che spaziano dalla tanto bistrattata cena di ex compagni di classe a iniziative culturali, commerciali e agitazioni di protesta basate sul tam tam della rete. Ecco così scomparire il classico volantinaggio dei gruppi politicizzati dagli anni '60 in poi, sostituito dal “flyer” digitale, a costo zero, che mantiene il suo scopo originale in alcuni casi, ma più spesso si è venduto per scopi commerciali e promozionali.

E’ certo abbastanza ingenua la definizione di “realtà” virtuale, che alienerebbe le persone disincentivando il contatto umano. Da questo punto di vista, si potrebbe obiettare che la televisione, che offre spettacoli di cui lo spettatore fruisce passivamente, in completa solitudine perlopiù e senza possibilità di interagire, possa essere considerata altrettanto colpevole, se non di più.
La stessa gente che si abbruttisce davanti al piccolo schermo spesso demonizza Internet, che rovinerebbe i giovani.
Ma perlomeno, se anche questi ultimi passano le ore al computer, sono obbligati a mettere in moto qualche neurone per poter digitare pensieri sulla tastiera e interagire con persone lontane, conosciute oppure no. Facebook non è una realtà, ma una piattaforma per condividere contenuti: e se vuoi partecipare, i contenuti da qualche parte te li devi andare a cercare o partorirli ex novo.

mercoledì 10 febbraio 2010

Chirurgia estetica e civiltà della rimozione


Ancora vent'anni fa, la chirurgia estetica di cui si aveva notizia fra i comuni mortali era limitata alla correzione del naso o delle orecchie a sventola. Si pensava, se proprio c'è qualcuno che ha un tale complesso del naso da sopportare di farselo martellare via per poi ritrovarselo scolpito alla francese, non c'è molto da eccepire. Senza contare che la chirurgia estetica nasce per rendere servizi meritevoli: corregge labbri leporini, setti nasali deviati, malformazioni che creano disagio fisico e/o psicologico; rimedia a offese del corpo, procurate da incidenti o malattie.

Ma è evidente che nasce come estrema ratio a problemi reali, non indotti. E che è invece diventata ben presto la corte dei miracoli dell'intero baraccone mediatico.

Dove una volta c'erano bagni con latte d'asina (o sangue di vergine assassinata, se ti chiamavi Elizabeth Bathory) e filtri d'amore, ora ci sono il bisturi e le iniezioni di botulino. Le vergini e le asine ringraziano, ma certo si è perso molto in termini di mistero e di magia.

Se ne è guadagnato però in risultati. Madonna potrebbe sembrare nonna con i suoi 50 anni, invece appare ancora come la zia più grande che si mantiene in forma. Questo è rassicurante per tutti, perché i segni del tempo sono offensivi, scandalizzano.

Abbiamo bisogno di rassicurazioni che siano allo stesso tempo rivoluzionarie e piccine.

Le signore dell'alta società, danarose e avanguardiste, avevano già iniziato a farsi impiantare protesi al seno negli anni Sessanta, ma la cosa veniva taciuta. Fino a quando una protesi non fosse esplosa ad alta quota, nessuno ne avrebbe saputo mai niente. E si tacitavano le domande maliziose con la menzogna imbarazzata, raccontando di cure ormonali miracolose o sviluppi tardivi.

Poi improvvisamente, sotto i nostri occhi la chirurgia estetica diventa un’ossessione di massa.

Gli interventi correttivi non conoscono più limiti: dal seno all’addome, passando per le natiche, le borse sotto gli occhi e la cancellazione delle rughe. Qualsiasi sia la fascia sociale di appartenenza, nessuno si nega più per principio un finanziamento rateizzato per una parte del corpo nuova, quasi fosse un lusso necessario, se si passa la contraddizione in termini.

Sembra davvero molto lontano il tempo in cui erano le attrici e le esponenti del jet set a coltivare l’ossessione per il proprio aspetto, lasciapassare per una carriera e una visibilità il più lunga possibile (ed erano sempre loro a rinchiudersi in casa e non farsi più vedere in pubblico quando la beltà le abbandonava definitivamente). Queste infelici erano le uniche a intristirsi oltre misura per la loro avvenenza perduta, a non reggere il confronto con un mondo che non le guardava più ammirato e non stendeva più il tappeto rosso al loro passaggio, ma al limite gli cedeva il posto sul tram.

Tutte le altre, più pragmatiche o meno dotate da Madre Natura, che non avevano conosciuto i sospiri degli ambasciatori e degli uomini del bel mondo, entravano nella fase della matrona e se la vivevano in tutta tranquillità, pure con un certo sollievo per essere finalmente esonerate dall’imbellettamento e dal confronto obbligato con le altre donne.

Incredibilmente, oggi è la gente comune ad ingaggiare la stessa lotta contro il proprio corpo. Senza nessuna ragione plausibile, di colpo il comune cittadino, ma più precisamente la comune cittadina, sente di dover corrispondere lo stesso standard estetico una volta confinato agli dei dell'Olimpo - le star del cinema, della musica e della televisione - in cambio di non meglio specificati benefici sociali. E il grande inganno sta tutto nella frase che ogni aspirante al bisturi ripete, che come un mantra rimbalza dalle riviste femminili ai salotti televisivi: “Lo faccio per me stessa, per sentirmi più a mio agio col mio corpo”.

La cura estrema di sé si rivela un business tanto più lucroso quanto più fondato sulle insicurezze delle donne, che sono potenzialmente infinite. Insicurezze che vengono nutrite da quella che possiamo definire società di Photoshop, mutazione della ormai datata società delle immagini.

La perfezione estetica richiesta in particolare alle donne è uno dei tanti frutti avvelenati riservati all'altra metà del cielo nell'arduo cammino del post femminismo. Sembra che ogni conquista femminile sia stata nel tempo castrata e trasformata nel suo opposto, senza che le donne fossero in grado di opporre una reale resistenza. Nelle ragazzine il senso di inadeguatezza è talmente radicato che arrivano a richiedere un seno nuovo come regalo per i 18 anni e gli adulti le accontentano.

La liberazione del corpo è stata sapientemente guidata fino all’ossessione per la perfezione fisica.

Va ricordato che le donne di tutte le epoche hanno sempre rincorso il sogno di essere le più belle del reame, una delle rare occasioni di potere femminile (che non a caso, pone le donne in competizione l'una contro l'altra). Allo scopo, avevano dalla loro tutta una serie di trucchi e di astuzie per tenere a bada le ingiurie del tempo e i difetti. I cosmetici, l’abito, l'acconciatura, le luci. Ma era una messa in scena, una recita. E per quelle poche fra loro che ricercavano l’autenticità a scapito dell’apparenza, ha parlato per tutte Anna Magnani, quando disse al suo truccatore che voleva coprirle le rughe prima di una scena: “Lasciamele tutte. Ci ho messo una vita a farmele venire”.

Va da sé che ci vuole tempra, per tenersi le rughe, con tutto quello che rappresentano.

Ma l’attuale impermeabilità alla vecchiaia è totale. La vecchiaia è troppo prossima alla morte per essere contemplata nella società di Photoshop, che è anche e soprattutto società della rimozione.

Ma se la vecchiaia non riesce a raggiungerci più neanche nella rappresentazione, è molto difficile imparare a gestirla, a considerarla una fase della vita da affrontare coi mezzi che abbiamo a disposizione e probabilmente crolleremo quando ci si presenterà davanti. Correremo a farla rimuovere, dolorosamente, dal bisturi. Non ci daremo pace.

Dove sono finite le Titine de Filippo, le sore Lelle? L’espressività di un’attrice può essere sacrificata in cambio di un volto levigato? Perché ci sono stangone mummificate e inguainate a presentare i programmi televisivi e mai vecchine coi capelli azzurati? Ma le signorine buonasera che sembravano rassicuranti zie, dove sono?

Sarebbe bello avere modo di abituarsi di nuovo alla realtà. Per favore.





domenica 28 giugno 2009

Le Bestie di Satana IV parte - I Fatti 1


Nel gennaio del 2004 Mariangela Pezzotta viene uccisa dal suo ex Andrea Volpe con l’aiuto della nuova fidanzata Elisabetta Ballarin, in uno chalet di proprietà della famiglia Ballarin a Golasecca, nel Varesotto.

Con questo omicidio, si apre ufficialmente la caccia alle cosiddette “Bestie di Satana”, l'inquietante nome coniato dai media per l’occasione. Ad oggi, si continua a parlare di setta nonostante dalle sentenze sia stata stralciata l'accusa di associazione a delinquere per tutti gli imputati.

Ma che cosa è successo allora?

Questa è la storia di un pugno di ragazzi che hanno commesso omicidi senza senso. A un certo punto viene tirato in ballo nientemeno che il Diavolo in persona e da lì si è aperta la voragine. Perchè se ci si mette di mezzo il diavolo poi niente è impossibile. E dato che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, si può perfino evitare di dare spiegazioni credibili o fornire un qualsivoglia movente e magari anche accusare altri che non erano presenti di aver “ispirato” gli omicidi nel nome del demonio.

Questa è una storia purtroppo ancora aperta, anche se tutti la vogliono solo dimenticare.

Andrea Volpe viene dunque colto in flagrante per l’omicidio della Pezzotta. E c’è ancora il padre di Fabio Tollis che gli alita sul collo dal giorno in cui è sparito il figlio, nel lontano 1998, e che non ci mette molto a fare due più due. La madre di Chiara Marino, l’altra vittima del duplice omicidio insieme a Fabio Tollis, in una puntata di “Chi l’ha visto” aveva affermato che dei satanisti, in particolare Paolo Leoni, avevano traviato sua figlia. Tutta la simbologia satanista di chi suona heavy metal e gravita intorno al Midnight pub di Milano c’era già, pronta all’uso per i giornali e i salotti televisivi. Dopo giorni di confusione e racconti fumosi, Andrea Volpe sa cosa dichiarare. Che la setta esisteva. Che nella setta tutti erano più importanti di lui. Che lui ha ucciso sì, ma solo perchè gli era stato ordinato. Che non ci si poteva opporre alla volontà del gruppo, altrimenti si faceva una brutta fine.

Ma chi faceva parte della setta? Sicuramente le persone che hanno partecipato con lui all'omicidio di Fabio e Chiara e poi anche qualcun altro che quel giorno non c’era, qualcun altro da buttare nel calderone.

D'altronde, lo ammette lui stesso nella registrazione di un suo colloquio in carcere col padre il 18/02/2004, dagli atti : “io, pa’, se la gente mi infogna, io tiro dentro un sacco di gente, mi invento nomi a palla, dico: “C’eri anche tu”, eh, alla fine io posso dire così.” Ma nel processo d’appello questa circostanza non ha assunto “alcun rilievo in quanto precedente l’inizio del protratto e travagliato percorso che lo avrebbe portato alla scelta collaborativa”, come ha sottolineato la sentenza.

Stessa sorte per un'altra intercettazione interessante del 24/06/04 è stata raccolta nella cella di Mario Maccione, reo confesso anche lui, l'unico minorenne all'epoca dei fatti : MARIO - (...)che Volpe, conoscendolo, lui non andava da solo in carcere, hai capito?

COMPAGNO DI CELLA–Beh, c’ha Sapone, c’ha quell’altro.

MARIO–Lui coinvolge gli altri, anche se non c’erano. A me non ha potuto con Mariangela, perché dalla... l’intercettazione mi ha salvato... col telefono no?”

Anche Nicola Sapone, intercettato il 19/10/04 a colloquio col padre, afferma: “Di Mario (Maccione, ndr) non me ne frega un c... Ma Ozzy, Eros e Marco (Zampollo, ndr) non c'entrano, perchè devo andare a raccontargli palle?”. Eppure.

Eppure per qualche motivo, gli inquirenti della procura di Busto Arsizio prima e di Monza poi, insieme con i media tutti, si affezionano da subito alla versione dei fatti data dal Volpe, quella della setta, dell'assenza di movente nel nome di Satana, e della chiamata in causa di persone che non erano nemmeno presenti sul luogo dell'omicidio né nel primo caso (omicidio Tollis-Marino), né nel secondo (omicidio Pezzotta), indicate e poi condannate come “ispiratori”. Tre persone che si stanno facendo quasi 30 anni di carcere su prove indiziarie e che continuano a dichiararsi innocenti. L'unico che sempre c'era e sempre agiva era lui, Volpe, che alla fine dopo tre omicidi è stato condannato a 20 anni con rito abbreviato e che se tutto va bene sarà fuori molto prima, a parlare nelle trasmissioni televisive come già ha cominciato a fare, nella parte di quello ravveduto. Quello che è stato messo in mezzo.

Nel rileggere a ritroso la storia, vien da pensare che Volpe non abbia bisogno di essere “ispirato” da nessuno, per uccidere, e che faccia tutto benissimo da solo.

E viene anche da pensare che Volpe sia uno che fa fede al suo nome.

Marco Zampollo di Brugherio, Eros Monterosso di Sesto San Giovanni e Paolo “Ozzy” Leoni di Corsico sono stati condannati come ispiratori dell’omicidio Tollis-Marino e accusati di essere membri di una setta satanica un po’ strana, assolutamente ignorante riguardo i riti esoterici e fondamentalmente contraddittoria sui propri scopi e regole interne. Leoni ha da sempre avuto la colpa di essere inviso alla famiglia di Chiara e indicato come uno che aveva rovinato la figlia; e soprattutto, di avere per padre un presunto satanista, ora defunto, che aveva compiuto un omicidio per motivi passionali nel 1985 a Trezzano sul Naviglio. Fu poi condannato e rinchiuso nell' ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere in quanto schizofrenico. E’ quindi molto facile indicare in “Ozzy” la mente della setta, il capo carismatico, nonostante la sera dell’omicidio Tollis-Marino fosse tranquillamente al Midnight, il pub di Milano dove ci siamo ritrovati tutti quanti negli anni ’90 a tirar tardi se appena appena ascoltavamo musica heavy metal, “satanisti” oppure no. Non si è riusciti a provare che “Ozzy” sia mai stato realmente presente a qualche riunione della setta: anzi sì, perché si prese per buona la dichiarazione del suo caporeparto alla Metro di Cesano Boscone, che teorizzò la possibilità tecnica, per un dipendente, di assentarsi un sabato pomeriggio per qualche ora senza che nessuno se ne accorgesse; “tuttavia in 35 anni non è mai capitata una cosa del genere, che io sappia”, disse in tribunale. Basta tanto poco per far crollare quello che in altre circostanze sarebbe un alibi inattaccabile. La conclusione del tribunale di Busto Arsizio aderisce al teorema dei pm, ossia ritenere che l'imputato, il quale ufficialmente risultava essere al lavoro, verosimilmente riuscì a sgattaiolare via senza essere visto, giusto in tempo per essere presente alla riunione in Fiera di Senigallia a Milano, per decidere di un omicidio che poi non commetterà.

Cominciamo dalla fine: la sera del 24 gennaio 2004 Andrea Volpe, durante un weekend chiuso in uno chalet a Golasecca con la fidanzata Elisabetta Ballarin, impegnati entrambi a conciarsi da buttar via assumendo svariate sostanze, decide di chiamare la sua ex Mariangela Pezzotta, cui era solito spillare soldi da anni, per chiederle di raggiungerlo allo chalet, forse proprio con lo scopo di farsi consegnare altro denaro.Qui la uccide a colpi di pistola, magari a seguito di un suo rifiuto, inaccettabile per un tossico, in particolare dalla normalmente mansueta e cedevole Mariangela. Poi i due fidanzati, strafatti, cercano di seppellire la vittima ancora viva nella serra adiacente, ma decisamente non ne sono in grado, e la lasciano con i piedi che sporgono fuori dal terreno. Volpe, in preda al delirio, chiama Nicola Sapone: con tono concitato, gli dice semplicemente di venire subito.

E quello arriva. La versione di Sapone è di essersene andato via dopo pochi minuti, non appena resosi conto dell'incresciosa situazione e della pericolosità di volpe, tanto che Elisabetta Ballarin non l'avrebbe neppure incrociato (circostanza confermata dall' avvocato Cramis, legale di elisabetta, durante un' udienza del dicembre 2005), dichiarando “Io non sono mai stato qui”. L’ingenuo.

La versione di Volpe è che Sapone abbia finito Mariangela a badilate, poi l’abbia seppellita lui stesso e che infine sia stato sempre lui a comminare al Volpe l’omicidio della sua ex. E quale sarebbe il movente del Sapone? Satana, in primis.

O anche, che c’era la necessità di far fuori Mariangela perché forse sapeva qualcosa dell’omicidio di Fabio e Chiara. In ogni caso, il Sapone era sicuramente lucido, quella sera, a differenza degli altri due. Si suppone che sarebbe stato almeno in grado di seppellire Mariangela per intero.

Fatto sta che il Sapone a un certo punto se ne va davvero e gli altri due si fanno ritrovare dai carabinieri a bordo della macchina della vittima, impastati contro il parapetto di un ponte, nel tentativo di sbarazzarsi dell’auto. Da lì in poi, è tutto un delirio di spiegazioni confuse, fino a quando dalle parole di Volpe si delinea l’idea della setta e degli omicidi nel nome del diavolo.

Volpe non ha molto da perdere e tutto da guadagnare nel dimostrarsi collaborativo: rende possibile il ritrovamento dei corpi di Fabio e Chiara nei boschi di Somma Lombardo, sollevando i genitori dei due ragazzi dalle tormentose e inutili indagini che avevano intrapreso per anni nella speranza di rivederli.

Grazie a questo, diventa ufficialmente un teste attendibile. La posizione pare piacergli molto e non si fa pregare nel fornire dettagli. Ricorda con precisione molte circostanze ovviamente indimostrabili, ad esempio le parole di Marco Zampollo, la cui presenza sarebbe altrimenti sempre nebulosa e di contorno assolutamente marginale, ma che a seguito del suicidio di Andrea Bontade, schiantatosi con la macchina, avrebbe detto: “Finalmente una cosa fatta bene”. Queste parole riferite dal Volpe sono la condanna al carcere a 26 anni per Marco Zampollo, dato che dagli atti non risultano praticamente altre circostanze in cui abbia avuto una parte attiva. Lui gravita quegli stessi posti degli assassini e li conosce, parla con loro al telefono in comunicazioni normali, di servizio, dove sei, cosa fai, vediamoci lì. I suoi più stretti contatti sono con Monterosso e Sapone. Poi viene Maccione, un poco anche Ozzy. Volpe praticamente mai. Conosce anche le vittime, in particolare Fabio. La tesi che lo condanna, insieme alle parole del Volpe, è: “Non poteva non sapere”. Si dice ogni tanto, vagamente, che lui era presente, ad esempio nel formare il pentacolo in certi riti improbabili.

Anche la madre di Chiara Marino ricorda con precisione e dichiara al processo che lui si presentò a casa loro insieme a tutti gli altri per consolarla, poco dopo la sparizione della figlia. Anche se, bisogna dire, la cosa di per sé non avrebbe costituito reato, era comunque falsa: Zampollo ha dimostrato durante il processo di essere stato in ospedale in quel periodo e subito dopo a casa in convalescenza, impossibilitato a muoversi. Lui in qualche modo c’era sempre, anche quando non c’era, proprio come Leoni.

Zampollo e Monterosso, altra figura nebulosissima, sono due che vengono sempre aggiunti in fondo, alla fine, in qualsiasi articolo di giornale, negli atti del processo, nei racconti dei pentiti che di solito si concludono con: “… e poi c’erano Zampollo e Monterosso”. Ricordi cosa hanno detto o cosa hanno fatto in una qualunque delle situazioni oggetto del processo? “No”.

Nebulose anche le risposte del Volpe, punteggiate di “non ricordo” o “ero sotto l’effetto di stupefacenti”, quando si tratta di rispondere a domande dettagliate sui fatti di cui è lui il protagonista o nel circoscrivere elementi precisi di riscontro alle sue parole. Ad esempio, c’è tutto un tira e molla sulle badilate date a Mariangela Pezzotta, che prima sarebbero segni del “cane Susy che le ha mangiato la faccia”, infine sarebbero state inferte dal Sapone. Per non dire delle accuse, poi ritrattate, verso la Ballarin, che prima era stata solo a guardare senza capire cosa stava succedendo, poi era a conoscenza della setta che aveva ordinato il sacrificio di Mariangela, e infine no, lei non c’entrava per niente.

Un’altra cosa certa è che la Ballarin nella sua testimonianza accusa solo Volpe e non Sapone. E' anche evidente che Nicola e Elisabetta avevano un rapporto di simpatia reciproca e amicizia, mantenuto anche dal carcere, dal quale continuano a scriversi lunghe lettere. Certo la cosa non doveva far piacere a Volpe. Forse anche per questo, le sue confessioni sono caratterizzate da un continuo scaricabarile nei confronti di Sapone. Ma quali che siano stati i loro effettivi rapporti, a un certo punto l’ansia di Volpe di salvaguardare sé stesso a scapito di Sapone, l’ha condotto a un passo falso talmente grossolano che finalmente qualcuno ha dato l’alt ai suoi sproloqui. Il Volpe ha infatti accusato Nicola Sapone anche di un omicidio del 2000 ai danni di un pregiudicato colluso con la 'ndrangheta di nome Antonio Grasta, che fu trovato cadavere nei boschi di Lonate Pozzolo mentre è dimostrato che il Sapone era in vacanza a Cuba. E per ironia della sorte, fu proprio Volpe ad accompagnarlo all'aereoporto. Ora è in corso il processo che vede Andrea Volpe imputato di calunnia nei confronti di Nicola Sapone. Un’eventuale condanna, porterebbe a rivedere finalmente l’attendibilità di Volpe come teste e a far aprire un’istanza di revisione del processo anche per Leoni, Zampollo e Monterosso.

Da Il Faro Magazine

domenica 24 maggio 2009

Eppur si muove


Qualche sabato fa sono andata al matrimonio di una collega molto, molto credente. E il marito peggio di lei.
Per cui, ci siamo sorbiti una cerimonia lunga un'ora e 40 minuti (ebbene sì: un'ora e 40 minuti), in cui non si è parlato mai dei due sposi e del coronamento del loro amore, bensì dei doveri del matrimonio, ovviamente tutti declinati al femminile. Poi c'è stato spazio per una polemica contro la modernità e il concetto di libertà, che deve invece essere sostituito dal concetto di obbedienza e di sottomissione (della donna), perché ciò che dice il vangelo è verità, non opinione, e l'unico scopo che abbiamo tutti nella vita è quello di salvarci l'anima secondo i dettami della chiesa.
Tutto questo, prima di cominciare la cerimonia, proclamata a gran voce di tipo tradizionale, il che vuol dire, secondo le istruzioni per l'uso dettate dall'officiante:

a) omelia interamente in latino (disponevamo di un libretto con traduzione a fronte, di cui avremmo fatto volentieri a meno, dato che esibiva tutti i passaggi più retrivi delle famigerate lettere di san Paolo agli apostoli). Il filo comune era, ça va sans dire, la sottomissione della donna. Cito a memoria (fallace): "perchè dio ha creato l'uomo a sua immagine e poi dal corpo dell'uomo prese una costola per creare la donna, così che fosse d'aiuto all'uomo".
Donne create per il piacere e la cura dell'uomo, questa interpretazione del vangelo, lo si ben sa, è molto in voga ancora dopo 2009 anni: lo sentiamo tutti i giorni dai gossip e le cronache.
Non è stupefacente?
Poi ovviamente c'erano indicazioni del tipo: vincolata a un solo talamo (la donna), obbediente, rispettosa, riservata, ecc. ecc., una lista pressoché infinita. Indicazioni per lo sposo? Una sola: quella di amare la sua sposa. Comodo. Il matrimonio declinato al maschile sembra una vera pacchia così. Declinato al femminile, sembra più un giogo infernale.

b) la comunione si riceve in ginocchio, l'ostia esclusivamente in bocca e non nelle mani.
Poi, avvertenza (per le donne): bisogna essere vestite decorosamente.
Sono anni che non faccio la comunione. Non ho intenzione di riprendere ora.
Specie dopo che ho visto una vecchia che a malapena si reggeva sulle gambe, doversi inginocchiare a fatica. E il prete impassibile che la guardava aspettando.
D'altronde che gli frega a lui, visto che gran parte della cerimonia l'ha passata voltato verso l'altare, a dar la schiena ai convenuti. Bah.


Questo è il nuovo corso di Ratzinger, fare carta straccia del Concilio Vaticano II.


La sera, ho fatto un salto alla Fornace, un centro sociale di Rho appena rioccupato dopo lo sgombero.

C'era il dj set per festeggiare. Qui ho beccato un tipo che conosco e che sta dentro il collettivo.
ci spiegava di come è stato rioccupare, di come si stavano organizzando per il futuro.
Dentro e fuori, pieno di gente.
Lo scopo della Fornace, ora, è quello di opporsi alle politiche per l'Expo 2015, oltre a creare spazio per iniziative culturali e di aggregazione in un territorio altrimenti in balia del soldo, degli appalti, delle mafie, del caporalato, della corruzione e della sverniciatura "european-style/only business oriented" che si vuol dare alla zona. Per cui la parola d'ordine è concretezza: non ci piace questo, ci opponiamo a quello. Fatti. La politica è strettamente legata al territorio. E il mio amico glissava sul fatto che il giorno dopo ci sarebbe stato lì dietro un comizio di Satana La Russa in persona.
"No, non organizziamo nessun tipo di contestazione. Che parli pure. Perchè andare a perdere tempo? Poi si rischia che la gente non ti capisce. Sono tutti pronti a darti la patente del facinoroso. Non aspettano altro".

Sul momento la cosa mi ha lasciato un po' l'amaro in bocca, ma solo lo spazio di digerire che le cose cambiano. Solo lo spazio di pensare infastidita che i fascisti parlano nelle piazze e alla gente gli sta bene così e che fino a qualche anno fa non sarebbe andata così liscia.
Ma invece va bene così. E' esattamente così che deve essere: superamento delle ideologie (fino a un certo punto, ovvio: non sono accettabili saluti romani dai ministri o ronde di nostalgici filo nazisti, non scherziamo). Ma ciò che intendo è che così devono essere le realtà alternative sul territorio, questa è la vera trasposizione del motto "Think globally, act locally".
Le politiche per l'Expo rappresentano tutto il marcio che sta dietro al turbocapitalismo mafioso all'italiana, corredato di disprezzo verso il cittadino, la comunità e il territorio. Mazzette a gogò, cementificazione e poc'altro. "Migliaia di posti di lavoro", dicono, sì, precari però, e lottizzati e caporalati e risparmio sulla sicurezza.

Così in una giornata sola ho visto come è cambiata la chiesa e come sono cambiati i centri sociali. C'è chi guarda avanti e c'è chi guarda indietro.
La chiesa volta le spalle ai fedeli, i centri sociali lasciano parlare un nemico.
Non c'è più religione.

domenica 15 febbraio 2009

Robert Frank, lo straniero americano




Robert Frank è prima di tutto uno straniero perchè nato in Svizzera e uno svizzero è straniero da qualsiasi parte, figuriamoci in America. Poi, come tutti gli stranieri, viene a guardarti qui dove vivi e quando ti osserva il suo sguardo è disincantato ma non del tutto estraneo, dato che è venuto fin qui.

Si dice che Robert Frank fosse già famoso per i reportage ma che poi decise di darsi all'osservazione della quotidianità e alla foto d'arte, inerpicandosi su una strada impervia che perdona poco, ma che invece gli rese giustizia quasi subito con il successo della mostra “Les Américains” a Parigi. Il suo viaggio on the road, durante il quale ne sviluppò le immagini, non fu certo un on the road qualsiasi ma realmente degno di questo nome, dato che per accompagnatore aveva un tizio di nome Jack Kerouac. Poi è diventato anche regista, ma questa è un'altra storia.

Cosa vede e cosa pensa uno straniero che si fa americano tra gli americani?
“E' il malinteso ad essere importante”, ci avvisa. E forse questa regola vale in tutto il mondo.
Nel 1948 le donne con il trench stanno a fumare nella vetrina di una caffetteria di NY, le strade sono lunghissime e affollate e le pozzanghere riflettono i grattacieli.
I toni del grigio sono morbidi, quasi una onnipresente foschia, mentre i juke box risplendono di luce propria. Nel New Jersey ci sono signori che indossano la tuba e da qualche altra parte, a Detroit, come nel Montana, i popolani si bagnano al fiume oppure pigiano tutta la famiglia in macchine roventi (1956). In America si guida molto, o quando tutto manca si prende il tram e si sa che le facce sui tram sono sempre incredibili.

Robert Frank è riuscito a sorprendere delle immagini che si fanno storia e cronaca e spaccato di società, come quella della bimba che corre nuda trascinando una bandiera americana svolazzante, mentre un ragazzino allibito legge da un giornale che titola MARYLIN DEAD. Come dire che nel suo momento di massimo splendore, più spensierata che mai, l'America muore. Forse anche questa è una regola che vale un po' dappertutto.

Poi ci sono i collage graffiati incisi coperti di scritte e non ce n'è uno che non ti faccia venire il magone. C'è quello per gli amici scomparsi, “so that we remember – a little bit longer” e un altro, diviso in riquadri, ancora più martoriato perchè raffigura i malati e il dolore dell'ospedale di Halifax. C'è tutta un'umanità dolente che non fa altro che ciondolare in giro, alla fin fine, forse proprio questa è l'America per Robert Frank.
La foto più rappresentativa, in questo senso, è quella che ritrae l'alba del giorno successivo al 4 luglio: in un paesaggio spettrale gli ubriachi giacciono sulla spiaggia di Coney Island, presidiata da un'inquietante torre.

Poi arriva la fase concettuale, ma purtroppo per Robert Frank non c'è niente che possa essere significativo quanto l'umanità dolente e ciondolante nei paesaggi grigi a cui ci ha abituato.
Per cui sembrano tirati per i capelli certi giochetti del 1977 come “Parole” che raffigura delle stampe fotografiche stese ad asciugare al sole. O peggio ancora il trittico “La fede e l'amore sono ciechi” (1981), dove una maschera dagli occhi cavi pende da un albero.
Il che può voler dire una cosa sola, ossia che i giorni con Jack Kerouac sono ormai lontani.

lunedì 22 dicembre 2008

Arbeit macht frei


L'impiegato della postazione n. 48 si siede alla sua scrivania tutte le mattine alle 9 in punto. Si stropiccia gli occhi e si toglie la giacca, poi si accoccola sulla sua sedia con soddisfazione mista a rassegnazione. Sotto la sua finestra sfilano i disoccupati. Scioperi non se ne fanno più: ma i disoccupati sfilano per le strade 2 volte al giorno, alle 9 del mattino e alle 18 la sera. L'impiegato della postazione n. 48 si sporge per guardare il procedere della massa che strascica i piedi sulla strada e va avanti, senza mai fermarsi, se non alla fine del percorso stabilito.

Tutti pensavano che fosse un'iniziativa estemporanea, non poteva durare, si sarebbero stancati, prima o poi. Sfilare, perchè? Non si ottiene nulla, tanto. Questo era il mantra che circolava di bocca in bocca. Ma sono mesi che sfilano, ormai. All'inizio scandivano slogan, urlavano, era impossibile non accorgersi di loro, quando ti passavano sotto la finestra. Impossibile non staccare gli occhi dal computer e farsi percorrere da un brivido, un sudore freddo che rimbalzava negli occhi di tutti i colleghi, ci si guardava in faccia senza dire nulla e ognuno dentro di sè pensava: "anch'io avrei potuto essere tra loro... e forse presto lo sarò".


La ditta non navigava in buone acque. Nessuna ditta, d'altronde.
E quelli continuavano a sfilare, silenziosi e compatti. Loro che erano rimasti, loro che avevano ancora un posto di lavoro, i fortunati, per così dire, non si sentivano poi tali. Le cose cambiavano di giorno in giorno. I prezzi aumentavano, le condizioni economiche rimanevano drammaticamente stabili, quando non peggioravano. Erano in bilico. La loro posizione era dannatamente scomoda. Dovevano lottare con le unghie e coi denti per rimanere lì dov'erano, bloccati in un lavoro che in fondo non gli era mai piaciuto. L'atmosfera era pesante, stavano tutti a guardarsi le spalle di continuo. Avevano smesso certi scherzi, certe abitudini, certe battute, non era il caso. Anche certe prese in giro, certe alzate di testa avevano fatto il loro tempo. Meglio non rischiare.

L'impiegato della postazione n.48 si sorprendeva incredibilmente a pensare che forse, a volte, è meglio sfilare per le strade e non avere nulla da perdere piuttosto che ingoiare e andare avanti a tirare la carretta per un "privilegio" che fa sentire così a disagio. E non aveva nemmeno più il diritto di lamentarsi. Si ritrovò a pensare che quando a qualcuno, in questa nostra società, togli pure il diritto di lamentarsi, allora sai per certo che sono cazzi acidissimi.


L'impiegato della postazione n. 48 pensava questo, ma poi tremava alla sola idea di poter davvero finire con gli altri a sfilare sotto quella finestra. C'erano delle battute idiote che circolavano tra i colleghi, come per per esorcizzare quelle paure, in genere durante la pausa caffè, cose tipo "magari un giorno ci prendono alle spalle e ci scaraventano dalla finestra, giù in mezzo a quelli che passano di sotto, così non devono sprecare neanche la carta della lettera di licenziamento!" Risate. E un brivido freddo che passa da uno sguardo all'altro per poi affondare rapidamente in un bicchierino di caffè bollente.

Al telegiornale non si dice più niente sulle sfilate dei disoccupati, il cui nome mass mediatico è un altro ovviamente, "sfaccendati". Si parla di "gruppi di sfaccendati", ma è chiaro che non sono gruppi, è una massa che aumenta di giorno in giorno.
Un giorno, l'impiegato della postazione n. 48 guarderà fuori dalla finestra e vedrà la città andare in fiamme. Un giorno.