mercoledì 2 gennaio 2008

Milano anni '90 e noi



Correva l’anno 1994 e io, finalmente, mi svegliavo. Sì perché proprio intorno ai 16 anni cominciavo a rendermi conto che la città era viva e succedevano un sacco di cose a cui bisognava obbligatoriamente prender parte. E poi avevo cominciato a leggere Bukowski e ascoltare (adorare) i Nirvana già da qualche tempo e queste sono cose che lasciano dei segni, come dire. Non ero più la stessa persona di poco tempo prima: ero incazzata col mondo. E poi, diciamolo, volevo succhiare ‘sto midollo, quello di cui parla Thoreau quando va per boschi e che Robin Williams ne “L’Attimo fuggente” ci aveva opportunamente ricordato. Bene, le premesse c’erano tutte, per tuffarsi nel delirio e vivere esperienze straordinarie. Difatti, chi come me è stato adolescente a Milano negli anni ’90 dovrebbe ricordarsi su che razza di giostra stavamo per salire (anche se probabilmente chiunque si ricorderà che nella sua adolescenza era tutto mooolto meglio), ma io qui voglio dimostrarlo, che lo fosse:

1) Non c’erano ancora i cellulari. Questo può sembrare un handicap per quanto riguarda i contatti con gli amici: ma per noi era ottimo, poter staccare davvero il cordone ombelicale. I genitori non potevano rintracciarci: raccontavo di dormire da una mia amica ed ero a un rave nei boschi del Pavese senza l’ansia che mammà mi chiamasse. Sparivamo giorni interi. I genitori dovevano fidarsi o rinchiuderci in casa. Non c’era modo di essere controllati: la città era tutta per noi.

2) In quegli anni c’erano ancora reali spazi di aggregazione notturni aggratis, aperti a tutti e che si caratterizzavano come veri e propri eventi autogestiti: mi riferisco alle notti trascorse al Bosco in Città col sacco al pelo, fra bonghi e falò, alle ore trascorse a ciondolare per P.zza Vetra prima che la recintassero, Parco Sempione prima che diventasse un’aiuola per pensionati e famigliole…

3) Le tribù giovanili erano in costante fermento. La parola che per me rappresenta tutta quella generazione è “contaminazione”. Gente che negli anni ’80 si sarebbe presa a sprangate, ora frequentava gli stessi posti, faceva parte degli stessi ambienti. I mescolamenti di genere, di musica, di abbigliamento erano potenzialmente infiniti. Ci si era accorti che, in un mondo mainstream, cercare l’alternativa sociale ed estetica, qualunque essa fosse, ci rendeva parte della stessa tribù: noi contro loro, quelli “normali”. Per cui io, che mi ubriacavo di Bukowski, Nirvana, Burroughs & Beat, Sonic Youth, Soundgarden ecc. ecc., ero pure addentro i misteri del punk, del dark e, ovviamente, del metallo pesante, senza sentirmi a disagio con tizi punk, dark e metalloni duri. L’essenziale è che non fossero vestiti da fighetti e non andassero nelle discoteche commerciali e latino americane, perché se no li schifavo. Li schifavamo tutti. Non che oggi mi piacciano granchè.

4) Il peccato più grande, l’orrore totale, ciò che veramente causava isolamento sociale era l’essere classificato come poser, ossia uno che fingeva. Non potevi farti i rasta se non conoscevi Haile Selassiè. Non potevi cercare i vestiti nel mercatino dell’usato e avere i soldi a casa senza vergognarti della tua colpevole incoerenza. Non potevi fare il punk con la cresta e sbavare per andare in tivù a FARE IL COGLIONE, perché OVVIAMENTE il tuo status di punk derivava dal fatto che tu schifavi tutta quella roba lì. Poche mezze misure. Ricordo che al parco Sempione i giornalisti con telecamera venivano allontanati a insulti. Era il ’97 quando ci fu la pietosa reunion di Johnny Rotten coi Sex Pistols? Bè, tale Skarto vomitò su una giornalista che gli chiedeva che ne pensasse. Mai risposta fu più eloquente. Ora viene da vomitare anche a me quando vedo il ragazzino coi dread e l’altro capellone che fanno la pubblicità dei telefonini. All’epoca sarebbero dovuti scomparire e non farsi più vedere in giro. Fottuti poser. E niente mamme che ti accompagnano a fare il tatuaggio. Ogni centimetro del nostro corpo valeva una rivolta familiare. Non era più un totale tabù ma non era neanche sul culo della velina, il tatuaggio. Era un po’ un segno iniziatico. Andato pure quello, a farsi benedire.

5) La cosa migliore degli anni ’90 è che non c’erano ancora in giro beghine e fascistelli o se ne stavano ben nascosti. I teocon e teodem non li avremmo partoriti neanche negli incubi più atroci. E chi se lo aspettava, che stavano appostati dietro allo scadere del millennio pronti a uscire dalle fogne. Mia sorellina che ha fatto il mio stesso liceo otto anni dopo, mi ha raccontato scenari surreali di ciellini al potere e di fighette odiose che le chiedono come mai a 21 anni non è ancora sistemata. No, mai l’avrei immaginato, dopo anni fantastici di occupazioni, assemblee e vivacissime autogestioni. Ed era una scuola tranquilla, niente teppismo, né bullismo, considerata come un liceo di valore. Ricordo che uno dei motti che giravano era “non si può essere apolitici, semmai apartitici!”, oltre al sempreverde “Vox Populi vox Dei”. Penso a concerti e manifestazioni e nel ricordo ho quasi dimenticato le ore di studio, i compiti e le interrogazioni.

6) Non c’erano ancora stati i fatti di Genova. Eravamo ancora verginelli, naif. Credo siamo stati gli ultimi a pensare che le cose, in fondo, non potessero che migliorare. Era finita la guerra fredda. Siamo rimasti sconvolti dalla Prima guerra del Golfo, dall’ex Jugoslavia e dal Kossovo. Ma la cosiddetta guerra al terrore e di civiltà era al di là di ogni presupposto. Solo un malato di mente poteva vagheggiarla. Come solo un malato di mente poteva permettersi di accennare a certi germi di razzismo e populismo che ora vanno per la maggiore. Dire che ci siamo risvegliati bruscamente è poco.

7) Consideravamo che nel futuro saremmo tutti stati artisti bohémien o che ce la saremmo cavata in qualche modo mantenendo intatto il nostro aplomb senza diventare odiosi squali e/o servi di qualcuno o grigi impiegati senza prospettive e senza soprattutto l’ansia di dover dimostrare uno status superiore o fare il business o cose del genere. Poi il mondo del lavoro è diventato una guerra fra poveri proprio mentre noi ci affacciavamo. Di colpo abbiamo trovato che tutti i diritti di cui avremmo potuto godere erano stati sbriciolati da mosse sotterranee di stronzi incravattati. E mentre andavamo per i trenta abbiamo scoperto quanto fosse vero il vecchio adagio per il quale non bisogna fidarsi di nessuno sopra i trenta. E mentre realizzavamo questo, ci siamo guardati indietro e abbiamo visto che i più piccoli erano peggio: pronti a uccidere per il successo, pronti a sposare tutto il peggio della società che noi invece disprezzavamo, pronti a vendersi al miglior offerente.

8) Last but not least, la scena musicale. E non sto parlando di singoli gruppi, che di quelli bravi ce ne sono sempre, anche ora ovvio (potrei dire White Stripes e Muse, ad esempio), ma proprio della scena. Mi ricordo un continuo provare e suonare. Io no, mai saputo suonare né cantare, ma ovunque c’erano gig e sale prove. Erano anni in cui si comprava “Metal Shock” e i gruppi nuovi spuntavano come funghi, si conoscevano tutti tra loro e inseguivano stili e suoni differenti ma erano tutti CONTRO e questo era fondamentale. Certo, esistevano anche i Take That ma in fondo avevano uno spazio infinitesimale e nessuno avrebbe mai voluto andare a fare il buffone da Maria De Filippi. Veramente sembrava che chiunque potesse uscire dalla cantina e viaggiare verso il successo, a maggior ragione se era brutto, capellone e incazzato. Ci stordivamo coi Stone Temple Pilots, Weezer, Alice in Chains, Mudhoney. I più duri e puri optavano per i sempreverdi Metallica, Iron Maiden, AC/DC. Senza contare la riscoperta costante dei padri di certa musica, dai Doors ai Sex Pistols. Ho imparato un sacco di cose, devo dire che mi sono applicata costantemente.

9) Vogliamo parlare della scena femminile e delle riot grrls? Fantastiche davvero, brutte e incazzate pure loro, altro che corpi levigati e depilati e sciaquette varie. Io adoravo L7 e Bikini Kills. Tutto l’ambiente femminile era diverso. Le veline della tv non interessavano a nessuno. Non c’era questo andazzo di gente stronza che ti dice che se non fai i figli hai colpa di tutti i maili della società e che se pensi alla carriera sei una donna a metà e che “non ci sono più le donne di una volta” e varie altre puttanate che sento quotidianamente con le mie orecchie da quando assistiamo impotenti a questo rigurgito patriarcale e di intromissione ecclesiastica negli affari di stato. Non mi sarei mai sognata che si attaccassero così spudoratamente le donne per quanto riguarda l’autodeterminazione, l’aborto, il diritto al lavoro senza ricatti emotivi vari. Non mi sarei mai sognata che un tizio imbecille potesse andare a dire in una trasmissione Rai che le lotte femministe non sono servite a niente, perché l’unica cosa che le donne hanno ottenuto è di andare a sculettare in tv, senza che nessuno sollevasse obiezioni! Io credo che a un tizio così debba essere impedito di circolare e che dovrebbe vivere nella paura che qualcuna gli spacchi la testa. Lo credo fermamente. Noi a tanta meschinità non ci pensavamo proprio. Ormai pensavamo di essere liberi tutti, in un certo senso. Pensavamo che nessuno poteva permettersi di giudicarci, né che nessuno avrebbe avuto abbastanza potere da tagliarci le ali, né che nessuno avrebbe voluto tornare indietro, ma che le cose sarebbero migliorate e basta.

Ora? Molti sono amareggiati, intristiti. Moltissimi, a dire il vero. Ma io continuo a considerarci dei sopravvissuti che non si possono arrendere. In qualche modo bisogna cercare di vivere nella maniera che si considera migliore e non farsi influenzare troppo da una società che ci fa schifo. La cosa più importante per me è cercare di non rendersi ricattabili. Questa è una mia spiegazione sociologica al fatto che molti di noi non hanno ancora figli e che magari non ne vogliono fare proprio. Non c’è niente più di un figlio che ti rende ricattabile. Quando devi rispondere solo di te stesso, puoi permetterti di non accettare certi sistemi e cercare di trovarne altri. Se qualcuno dipende da te… Bè, allora puoi solo adattarti e tirare la carretta. Quelli che li hanno fatti, al contrario, è perché probabilmente hanno voluto darsi un senso che eludesse dai sogni e pensieri della gioventù e in qualche modo questo mi rattrista. O perché è capitato. O perché lo desideravano. Chi lo sa. Ma la mia spiegazione sociologica, modestamente secondo me, andrebbe tenuta in considerazione.

E questo è tutto quanto volevo dire, per ora.

R.I.P. CSOA Garibaldi.

3 commenti:

Rombo di Diesel ha detto...

Ti voglio bene, hai riportato anche me ai miei 16 anni, grazie dei ricordi =) W parco semp W zabriskie point W la bici ^______^ CONTRO SEMPRE POSER MAI

Cicuta ha detto...

Bè, mi fa piacere se mi vuoi bene! :)

HommeLibre ha detto...

Bravissima. Soprattutto per il n° 7.

I miei anni novanta a Milano?

Prendere il treno alla bullona.E di fronte c'era il Qzar non il roialto.
Giocare a pallone sul prato fuori dal Coquetel.
Musica all'aperto sotto al ponte della Ghisolfa.
Il Leoncavallo ancora in via Leoncavallo.
Un mondo in cui, se era caduto il muro, tutto era possibile.
Una classe media che era ancora media, senza l'ossessione per i soldi a tutti i costi.
Il plastic.
Il cinema d'essai vicino alla Cattolica (non mi ricordo dove), dove potevi vedere film di Greenaway.
Le birre allo Stalingrado.
L'abbonamento ATM di plastica con i tre inserti separati.
Il capodanno del 2000 - ero ubriaco perso in via Mercanti - da lì in poi tutto si sarebbe sfasciato