domenica 20 gennaio 2008

La Morte, mio nonno e Enzo Biagi


Quando è morto Enzo Biagi ho deciso di fare una cosa che difficilmente avrei fatto per qualcun altro e che di sicuro non avrei mai pensato fino a pochi mesi fa: sono andata alla camera ardente. In genere non so perché faccio le cose che mi sento di fare e solo se ci rifletto in seguito trovo spiegazioni, motivazioni, significati. Così succede anche stavolta. La sua morte mi ha commosso, e questo è un fatto. Le ingiurie e l’epurazione che ha subito negli ultimi anni della sua vita, e da chi vale infinitamente meno di lui, sono un altro fatto. La sua aria bonaria e saggia, l’arguzia e il talento comunicativo, oltre che l’umiltà e l’onesta che hanno caratterizzato la sua persona, sono altri fatti. Ma che da soli non bastano a spiegare perché di mia spontanea volontà mi sia alzata dal letto con buon anticipo (fatto inspiegabile di per sé, per chiunque mi conosce) e mi sia recata sul posto, per star dentro solo 10 minuti a intristirmi come non mai, coi lacrimoni e tutto, in mezzo a carabinieri col pennacchio e telecamere avide di pubblico cordoglio, prima di avviarmi al lavoro.

In mezzo, il Morto. Bianco, composto, in completo scuro, tale e quale a come deve essere un Morto. Il 27 luglio ho visto un altro Morto, mio nonno. Il primo che io abbia mai visto. Negli anni ho perso altri parenti, ma ho sempre e solo visto la bara chiusa e devo ammettere con un po’ di vergogna che dopo l’iniziale sconvolgimento e la tristezza e la pena che caratterizzano questi eventi, sono tornata senza grossi scossoni alla mia solita vita, pensando raramente ai cari estinti, se non in determinate circostanze. Certo, ero più piccola, più immatura, più stupida… Questi sono i fatti. Ma mio nonno l’ho sempre adorato e ha sempre rappresentato per me la vera “famiglia”: era il patriarca, era lucido, divertente, affettuoso, interessato a tutto. Era dignitoso. Uno di quegli anziani gentiluomini napoletani sempre col gilet di lana e la camicia anche in casa, con ancora tutti i capelli e sempre ben pettinato. Con mia nonna formava una coppia formidabile, li andavi a trovare e ti ritrovavi in mezzo a situazioni e dialoghi che sembravano usciti direttamente da un canovaccio di Eduardo. Non posso dire quanto mi manchi. Ma tant’è. E’ rimasto in salute fino agli 84 anni ma poi si è spento in pochi mesi di malattia, a casa sua, dopo un periodo in ospedale in cui andarlo a trovare era una sofferenza. Non potevo credere alle cazzate che doveva sorbirsi da tutti i figli e nipoti che gli dicevano che sarebbe guarito. E che dovevano dire, già, sono queste le cose che si dicono fra persone perbene e adulte. Era cambiato, tanto. Durante la notte del 27 ha avuto una crisi e a un certo punto ha rifiutato l’ossigeno. Lucido fino all’ultimo. Lo stesso giorno, moriva anche Giovanni Pesce, ex gappista.

E io sono andata lì, in quella che prima era la casa di “Natale in Casa Cupiello” e ora invece bisognava andarci per vedere il Morto, che non era stato ancora ricomposto, truccato, imbottito e pronto per essere presentato in Società. Ho sentito spesso gente dire che i morti hanno l’aria serena, ma lasciatemi dire che lui di sereno non aveva un cazzo. Lo guardavo e potevo vedere l’esatto momento in cui la sua vita era volata via, lasciandolo rigido, con gli occhi vitrei socchiusi, la bocca semiaperta. L’aria era stupita, e sfiancata anche. Io lo guardavo e potevo sentire ogni singola fibra del dolore e del terrore che lo avevano attraversato e continuo a vederlo e a pensarlo anche oggi.

Poi, dopo pochi mesi, vado nella camera ardente dove sosta la salma di Enzo Biagi, senza sapere perché. E sul libro delle firme ho scritto qualcosa tipo “Te ne sei andato tu, mio nonno, Giovanni Pesce… Mi sento come se tutti gli anziani dignitosi e umani ci stiano morendo intorno. Buon viaggio”. Non che la cosa abbia un gran senso… Ma mi sembra che al contrario i rincoglioniti e gli infami non schiattino mai. Questo era quello che probabilmente avrei voluto scrivere. Poi me ne sono andata e ho camminato un bel po’, fino a che non ho trovato dei cartelloni appesi al muro con sopra delle poesie, su viale Lamarmora. Ce n’era una di Emily Dickinson e una di Guido Gozzano. Quest’ultima parlava di un’anatra che viveva alla grande nel suo laghetto e che non pensava mai al Natale e nemmeno alla cuoca. E poi finiva con un verso tipo (libera interpretazione mia e della mia pessima memoria): “Non è poi così male essere cucinati, ma è tremendo pensare di esserlo”.

Non che pure questa cosa abbia un gran senso… Ma sarà per la poesia, per Samhain che è appena passato o più probabilmente per Enzo Biagi, ma io mi sono resa conto che mio nonno mi ha liberato dalla paura della Visione della Morte e che per l’ultima, ennesima volta, mi ha lasciato una cosa positiva perché da lui io ho sempre e solo avuto cose buone.

1 commento:

Anonimo ha detto...

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