martedì 17 giugno 2008

Il Divo


Il Divo è Toni Servillo, attore strepitoso che perde la sua faccia e la sua voce dietro la maschera del Divo vero, il Divo Giulio.

Andreotti è una persona o una caricatura mefistofelica del Potere?

Ogni tanto appare sullo schermo come una persona, uno che si riempie di aghi d’agopuntura per sconfiggere le sue croniche emicranie e che guarda insieme alla moglie Renato Zero in tv che canta “I migliori anni della nostra vita”. Ma poi appare all’improvviso nell’ombra delle stanze come Nosferatu e sì, vien da chiedersi cosa gli sia rimasto d’umano.

Andreotti è un personaggio, una metafora, una caricatura: fa sorridere con le sue battute lapidarie e per via della figura macchiettistica. Ma è inquietante per ciò che nasconde, per le manovre sotterranee, per la partecipazione attiva all’inquietante realtà di un Paese opaco e segnato dai lutti, dove le verità pubbliche vengono solo sussurrate e poi nascoste sotto il tappeto dell’omertà, del tempo, del privilegio particolare. Una figura come questa, non la si poteva inventare.

Il regista Paolo Sorrentino segue la strada di Rosi, Petri e Ferrara, ma il suo stile è adeguato ai tempi, non vibra d’indignazione, non offre soluzioni e non racconta nemmeno la realtà così com’è: sceglie di concentrarsi su un personaggio verso cui si può solo alludere e l’esercizio di stile è provare a immaginare cosa nasconda. Così tutto si presenta evocativo, mai chiaro e ciò che al contrario appare chiarissimo, per contrasto sconfina nel grottesco. La visuale non è documentaristica né narrativa, ma immaginifica, con sprazzi di fumetto e arte grafica: basta guardare come sfilano quei loschi figuri della corrente andreottiana, in pieno stile Quentin Tarantino, padroni della scena, indistruttibili: da “Lo Squalo” a “Sua Sanità”, da Salvo Lima a Cirino Pomicino, dipinto come un brillante festaiolo che inciucia con chiunque e che, se gli gira, si mette a correre per poi scivolare sul lucido pavimento di marmo dei Palazzi.

Cadranno tutti, tranne Lui.

C’è una Roma oscura e un po’ perversa, che Andreotti percorre seguito dalla scorta, camminando lentamente e leggendo sui muri le scritte che lo riguardano e che di solito non sono benevole né acclamanti. Egli riesce a farsi scivolare addosso mezzo secolo di storia e di morti con la flemma di chi sa ma non dice, di chi sente ma non parla, di chi archivia tutto in uno stanzino buio e da cui tutti devono guardarsi, sempre circondato da sospetti ma esente da danni, sopravvive a sé stesso e anche a tutti i suoi nemici, amici e affiliati. Sopra tutto, così dice, la volontà di dio.

Egli è sempre rigido, immutabile. Affronta allo stesso modo i momenti di gloria, le feste scatenate dei salotti romani, la delusione e la frustrazione per non essere stato eletto Presidente della Repubblica e perfino il processo che lo vede indagato per collusione con la mafia. Il nostro sembra sapere che ne uscirà sempre indenne e uguale a sé stesso. Ma questo film prova a spiegarci la differenza fondamentale fra lui, che è sopravvissuto, e tutti gli altri, che sono caduti, come Moro, Falcone e Borsellino, Pecorelli: loro cercavano la verità, erano fissati con la verità, e la verità a quanto pare in questo paese è sempre meglio occultarla e non stuzzicarla perché non porta mai a niente di buono.

E’ un’opera che gioca brillantemente su contrasti tutti nostrani e cambi di registro improvvisi, l’orrore delle bombe e delle sparatorie è amplificato dalla musica elettronica, gli eventi tragici come l’assassinio di Moro compaiono dal buio della memoria e degli anni e si palesano dietro gli angoli bui, in attesa. Il regista immagina che Andreotti sia perseguitato da un unico fantasma, proprio quello del suo compagno di partito Aldo Moro, il quale gli appare mentre si guarda allo specchio e la cui voce, che legge terribili lettere d’accusa nei suoi confronti dal covo delle Br, continua a rimbombare.