domenica 26 settembre 2010

Analisi di un mestiere


Le prostitute scatenano reazioni contrastanti, sempre.
I cittadini sbraitano se le vedono passeggiare sui viali di giorno: si preoccupano di cosa possono pensare i bambini. Poi la sera, percorrono quegli stessi viali in macchina. E i bambini, in televisione, vedono cosce e sederi esibiti come se fosse normale.
Ma che cos’è una prostituta? La parola è femminile, senza scampo.
La prostituta è una schiava. La prostituta è la prima donna indipendente della storia. La prostituta è una necessità sociale. La prostituta è una dea della notte. La prostituta è paradigma del patriarcato. L'unica cosa certa è che la prostituzione è stata, per secoli, l'unico mestiere accessibile alle donne, l'unico che consentisse un'entrata economica a una donna sola. E questo la dice lunga, in qualche modo.
Sentiamo ogni giorno notizie di donne costrette a prostituirsi con la forza, minacciate, ricattate. E’ un’ennesima faccia della sopraffazione e della violenza di genere, il racket del sesso, tale e quale a quello delle armi e della droga. Ma i clienti non si pongono il problema della schiavitù che contribuiscono a perpetrare. I clienti sono uomini senza volto. Possono essere tutti, e nessuno. Non ci sono percorsi di recupero, di reinserimento a una sessualità sana previsti per loro, né riprovazione sociale. Loro sono “normali” cittadini. Esiste il fenomeno della prostituzione, ma non della clientela della prostitute. Esiste il fenomeno della violenza sulle donne, ma non della incapacità maschile a liberarsi dalla modalità violenta. Eccetera, eccetera.
Ci sono prostitute che gestiscono da sé la propria attività di intrattenimento sessuale, libere da aguzzini o protettori di sorta. E che vivono il proprio come un normale lavoro, magari migliore di altri in cui si sgobba dalla mattina alla sera per pochi euro. E poi, ci sono donne che si fanno fare regali costosi dal “papi” di turno o che si lasciano ingabbiare in matrimoni convenienti. Ora ci vogliono far credere che questo sia il modello femminile vincente, rivendicato in televisione e sui giornali.
Ma la prostituta è più onesta. Lei ha a che fare con la parte oscura dei rapporti umani e della società.
Gli uomini che pagano per il sesso esercitano un potere, il potere d'acquisto, che spesso è anche l'unico potere loro rimasto. Rinunciano ben volentieri a ogni responsabilità rispetto al benessere e al piacere della partner, che diventa una sottoposta. Una prestatrice d’opera. La femminilità viene così circoscritta a livello di sfogo di una pulsione. Ma è innegabile che la prostituta abbia anche ispirato poesie, canzoni, teneri ricordi di gioventù. Ci deve essere qualcosa di rilassante in una professionista del piacere, qualcosa di archetipico che riguarda la coscienza collettiva: un dolce approdo di femminilità per chi ne è privo, una donna che non giudica, a differenza della Madre, e che accoglie con bonarietà il lato perverso che l'uomo si sente obbligato a nascondere agli occhi della Moglie e della società intera. Certo lui non viene pagato per fingere, mentre una prostituta sì.

domenica 25 aprile 2010

Le Bestie di Satana V Parte - I Fatti 2


Il 19 maggio Andrea Volpe è stato infine assolto anche dall’accusa di calunnia nei confronti di Nicola Sapone. Nonostante abbia accusato l’ex amico Sapone di un delitto che non poteva aver commesso (cfr. parte 1), i magistrati hanno deciso che il fatto non sussiste. Non si tratta di calunnia, ma di testimonianza resa per “sentito dire” e sempre, ovviamente, “in buona fede”. La maledetta, presunta “buona fede” di Volpe che ha condannato a quasi 30 anni di carcere Marco Zampollo, Paolo Leoni e Eros Monterosso per delitti che non hanno commesso. Infatti li ha commessi lui.

Bisogna dire che Nicola Sapone, intentando questo processo per calunnia, che avrebbe potuto far riaprire il processo principale (ma non è detta l’ultima, perché i legali di Sapone ricorreranno in appello), stesse lavorando soprattutto per loro. Perché con due ergastoli sulle spalle, lui di certo non ha grandi speranze di uscire, anche se il suo ruolo sarebbe notevolmente ridimensionato se e quando finalmente si smetterà di prendere per oro colato le dichiarazioni di Volpe. Ma è evidente che al Sapone proprio non va giù che il suo ex amico la faccia franca. Che non paghi fino in fondo per le sue azioni, scaricandole sugli altri. Certo è dimostrato che Sapone partecipò almeno al primo delitto, il delitto Tollis-Marino. Ma è alquanto improbabile che infierì sul corpo di Mariangela Pezzotta, come il Volpe ha voluto fortemente far credere (cfr parte 1). La pesantezza della condanna di Nicola Sapone deriva principalmente dal fatto che non ha mai collaborato con gli inquirenti e non ha mai confermato le tesi di Volpe, in sostanza quello che gli inquirenti volevano sentire: ha infatti sempre negato l’esistenza della setta satanica, nonché la sua posizione di presunto leader e non ha mai fatto i nomi di altri per alleggerire la propria posizione.

Tutto ha avuto inizio la notte del 17 gennaio 1998, quando Fabio Tollis e Chiara Marino spariscono dalla faccia della terra, dopo essere usciti di casa per passare il sabato sera, come al solito, al Midnight pub di Milano.
Nel 2004 il reo confesso Andrea Volpe permette il ritrovamento dei loro cadaveri nei boschi di Somma Lombardo.
Michele Tollis, il padre di Fabio, per 6 anni aveva investigato sulla scomparsa del figlio, da solo. Nessuno gli dava più retta. Tutti a dirgli che era stata una fuga d’amore. Ma era impossibile crederlo, per chiunque conoscesse Fabio. A seguito dell’omicidio di Mariangela Pezzotta, Michele Tollis ha la conferma delle sue ipotesi peggiori e capisce che Andrea Volpe è coinvolto. Finalmente, quattro mesi dopo essere stato colto in flagrante, Volpe si decide a collaborare. E fa nomi a palla, come ben sappiamo. Nessuno tratta più Michele Tollis da importuno, fra gli inquirenti: anzi, si pende dalle sue labbra. E qualsiasi siano i suoi sospetti, li si verifica con sollecitudine. Glielo si deve, dopo 6 anni in cui lo si è lasciato solo. Forse per eccesso di zelo ci si fa un po’ prendere la mano e non si aspettano riscontri per incarcerare diverse persone.

La sera dell’omicidio, Fabio fa un’ultima telefonata a casa verso le 23, per chiedere a suo padre se può dormire fuori. Permesso negato. L’ultima volta che lo vedono sta andando via in macchina con Andrea Volpe, Mario Maccione, Chiara Marino e Nicola Sapone. Dicono che vogliono andare al Nautilus, un localone rock in provincia di Varese.
Nel giro di un’ora Michele Tollis è davanti al Midnight per riportare a casa il figlio, ma non lo trova. Paolo “Ozzy” Leoni gli va incontro, cercando di tranquillizzarlo. Ma per l’accusa si è trattato invece di “depistaggio”, in quanto lui avrebbe saputo esattamente cosa stava per succedere. Marco Zampollo è dietro l’angolo a bere qualcosa al Memphis, un altro locale. Per l’accusa, si stava nascondendo dal padre di Fabio. Anche in questo caso, qualsiasi cosa faccia o dica lo Zampollo, sbaglia comunque. Monterosso era a passare la serata da tutt’altra parte.

La carovana, che non è mai arrivata al Nautilus, si ferma invece da qualche parte nei boschi intorno a Somma Lombardo, dove Pietro “Wedra” Guerrieri giorni prima aveva scavato una buca, insieme ad Andrea Bontade, che la sera dell’omicidio non si presentò e che fu in seguito, per questo motivo, “indotto al suicidio” dalla setta, secondo l’accusa.

Pietro “Wedra” Guerrieri pare fosse una specie di burattino nelle mani degli altri, una persona psicologicamente molto disturbata a causa dell’assunzione di cocaina e altre droghe protratta negli anni: era già passato per due ricoveri psichiatrici.
E’ il terzo “pentito” del gruppo, insieme a Maccione e Volpe, e ha reso anche lui una quantità di dichiarazioni che vanno a convergere sempre nello stesso punto: la setta esisteva, agivamo spinti dalla paura di essere uccisi dagli altri membri, eccetera eccetera. E’ stato condannato a 12 anni con rito abbreviato. Pare che il Guerrieri fosse affetto da manie di persecuzione: alcuni avventori del Midnight pub ricordano diversi episodi con “Wedra” protagonista, che sbrocca all’improvviso senza motivo apparente dandosi alla fuga, urlando contro i passanti, scaraventandosi fuori da macchine in corsa in preda al panico. Era una sorta di personaggio tragicomico, caratteristico del luogo, che vivacizzava certi sabati sera un po’ noiosi.

Quando la macchina arriva nel bosco, nei pressi della buca, avviene la mattanza. Fabio e Chiara vengono uccisi brutalmente, con numerose coltellate e colpi di mazza. Poi vengono gettati nella buca e ricoperti di terra. Pare si sia infierito sui cadaveri, orinandogli addosso.
Nel parlare di quella tragica sera Andrea Volpe, come suo solito, addossa gran parte della colpa a Nicola Sapone. E’ stato Sapone a infilare i ricci nella bocca di Fabio per impedirgli di gridare. E’ stato Sapone che gli ha ordinato di scendere nella buca per finire Fabio, ma lui, poveretto, non se l’è sentita. E così, è stato ovviamente Sapone a finire il lavoro sporco, dopo che Mario Maccione l’aveva iniziato. In effetti è quasi certo che fu Maccione a colpire per primo, tanto che nella furia omicida si ferì ad una mano. Sempre Sapone, avrebbe poi ballato sulla fossa gridando: “Ora siete zombie”.
E Volpe, invece? Lui ha dovuto tirare qualche pugnalata a Fabio, ma più che altro lo teneva fermo.

Secondo Maccione, al contrario fu proprio Volpe ad accanirsi col coltello su Chiara e poi sì, è vero che teneva fermo Fabio, ma intanto urlava di correre all’auto a prendere la mazza con cui finirlo. Maccione dichiara anche di essere stato drogato dagli altri e di non ricordare nulla, salvo poi ricordarsi dei particolari di cui sopra. Certo, lui non voleva uccidere nessuno. Tanto che arriva a dire che erano stati Fabio e Chiara, in preda a vero e proprio misticismo satanico, potremmo definirlo, a chiedere ai compari di essere immolati in sacrificio al principe delle tenebre.

D’altronde, Mario Maccione, che era minorenne all’epoca dei fatti e se l’è cavata con 19 anni con rito abbreviato, è colui che si è sempre autodefinito un medium.
Non è certo tipo da farsi molti scrupoli, in nessun senso, tanto che la sera dopo l’omicidio ha dormito tranquillamente nel letto di Fabio, suo amico d’infanzia.
Lui e Guerrieri sono le due pedine nelle mani di Volpe: sono loro che assicurano una parvenza di riscontro alle dichiarazioni di quest’ultimo. Ma è del tutto logico, considerando che sono stati rinchiusi tutti e tre nello stesso carcere di Busto, dove avrebbero potuto tranquillamente concordare una versione comune, diversamente da Sapone, Leoni, Monterosso e Zampollo. Cosa c’era di meglio per questi due gregari, terrorizzati dalle conseguenze delle loro azioni, se non di seguire (a modo loro, cioè a casaccio) le indicazioni del capo, come avevano sempre fatto fino a quel momento? Quando il capo ti garantisce, e a ragion veduta, che solo così c’è speranza di cavarsela tutti quanti in pochi anni, lasciando a marcire in carcere qualcun altro?
Perchè farsi scrupoli, dopo che si è dormito nel letto di Fabio?

Maccione è il fantasista del gruppo. Lui si preoccupa solo di dire panzane sui demoni che gli parlavano o sugli assurdi moventi che avrebbero spinto il gruppo al duplice omicidio. Oltre alla versione dell’immolazione spontanea delle vittime, il vero colpo di genio è quello in cui Chiara sarebbe stata uccisa su ordine dei demoni perchè “incarnava la Madonna”. Non apettatevi mai una ricostruzione men che improbabile da parte di Maccione, delle cose “serie” si occupa infatti, in qualche modo, Andrea Volpe. Il compito di Maccione è di spararle grosse, in una sorta di strategia autodifensiva demenziale (ma evidentemente efficace), del tipo “più ci credono sciroccati meglio è per noi”.

Una delle sue ultime boutade in ordine di tempo è quella (ovviamente ripresa come oro colato dai mezzi di comunicazione) in cui le vittime della setta satanica sarebbero ben 18. Ma lui lo dice solo ora, perché prima il suo cervello era annebbiato dalle droghe che ha assunto per anni, solo adesso inizia a ricordare. Peccato non sappia mai dire chi sia stato ucciso, né come, né dove. Le droghe, vostro onore. Intanto, si è scavato a caso in mezza Brianza, inutilmente.

Comunque, il teorema preso per buono, alla fin fine, è quello secondo cui non ci si poteva allontanare dal gruppo senza pagare con la vita. A questo proposito, sarebbe interessante chiedere a tutte le persone che negli anni sono entrati e usciti dal gruppo in questione, cosa ci facevano tutti vivi e vegeti a testimoniare in tribunale dettagli importantissimi del tipo: “Sì, in effetti tizio e caio erano strani…” Uno è assurto al ruolo di teste fondamentale per aver dichiarato che Leoni ce l’aveva con lui per qualche vecchia ruggine e che la volta in cui lui provò a rivolgergli la parola in segno di pace, quello gli avrebbe ringhiato contro.
Questo teste può ora sicuramente dormire sonni tranquilli, senza ringhi di sorta.

Va detto però che la cosa più inquietante di Maccione è che in realtà lui ce l’ha a morte con Volpe. Proprio non lo può vedere. E sebbene si sia accodato alla tattica del capo, ogni tanto vorrebbe, con le sue deboli forze, far intuire che la verità è un’altra. Ma niente pare possa più scalfire questo gigantesco castello onirico-giudiziario in cui sono tutti invischiati, giudicati e giudicanti. Lui ci prova, dichiarando ad esempio (nel corso dell’interrogatorio del 13 ottobre 2004) che la situazione nel gruppo sarebbe degenerata in seguito all’arrivo di Volpe, sia per quanto riguarda l’uso di droghe che per la nascita di continue tensioni interne; Leoni, invece, sarebbe descritto come un semplice megalomane esibizionista e narciso. Tutt’altra versione insomma, rispetto a quella di Leoni capo carismatico senza pietà a cui tutti devono obbedienza.

Sono sempre di Maccione le parole intercettate in cella che discolpano “Ozzy”, Eros e Marco (cfr. parte 1) e che insinuano il dubbio che Volpe stia facendo solo il proprio gioco, coinvolgendo più gente possibile. E ancora, non appare un caso che faccia rivestire proprio a Volpe il ruolo più scatenato nell’uccidere Fabio e Chiara, quello che guidava l’azione. Anche Elisabetta Ballarin sosteneva che la furia omicida di Volpe era inarrestabile, la sera dell’omicidio di Mariangela, e che Sapone non c’entrava per nulla.
Comunque la si giri, si torna sempre allo stesso punto.

Ma se è tutto campato in aria, allora quale sarebbe il vero movente dell’omicidio Tollis-Marino?
Perché un movente c’è ed è decisamente più concreto rispetto ai presunti deliri satanici.
Il movente è vecchio come il mondo: i soldi.
Consideriamo che abbiamo tre assassini che sono, in primo luogo, tre tossici.
Volpe tossico era e tossico è rimasto, anche nell’abilità di mentire e dare la colpa agli altri, come tutti i tossici di professione. La sua carriera di tossico ha il suo fulgido culmine nella serata al massacro con la Ballarin e nell’omicidio di Mariangela, da cui era solito succhiare soldi per la droga (cfr. parte 1).
Maccione aveva smesso di essere lucido probabilmente subito dopo la scuola dell’obbligo: a 16 anni era già un consumato sperimentatore di droghe, in particolare sintetiche, specie nell’ultimo periodo sotto la guida di Andrea Volpe, per sua stessa ammissione.
Sapone evidentemente, se era lì quella sera con quei due, non disdegnava le droghe, e men che meno i soldi.

I soldi li aveva Chiara Marino. Erano 188 milioni di lire che aveva incassato dall’assicurazione per un incidente in motorino occorsole qualche anno prima e che ora poteva finalmente ritirare.
Non erano un mistero, quei soldi, Chiara ne aveva parlato con tutti.
E dunque, perchè non supporre che tre tossici mezzi sfaccendati abbiano portato una ragazza di notte in un bosco, una ragazza che potenzialmente poteva valere 188 milioni di lire, per ottenere da lei questi soldi? E che la buca scavata in precedenza, potesse magari far parte della strategia intimidatoria, grezza quanto i suoi ideatori, ossia quella di spaventare la Marino minacciandola di morte per farsi consegnare quello che volevano, cioè i soldi?

Partendo da questo presupposto, niente di più facile che poi la situazione sia degenerata, considerate le condizioni perlomeno alterate degli attori principali e l’intervento di Fabio che si è messo di mezzo, di traverso ai loro piani. Perché Fabio era un ragazzone grande e grosso, un gigante buono, a detta di chi l’ha conosciuto e giusto perché erano in tre e scatenati gli assassini hanno potuto aver la meglio su di lui.
Il quadro risulta così chiarissimo: se metti insieme tre tossici strafatti che vogliono arrivare ai soldi, una ragazza urlante che rifiuta di intendere ragione e un ragazzone che perde le staffe e inizia a menar le mani, non può che finire come in effetti è finita. Ma no. E’ colpa di Satana.

La cosa incredibile è che in Tribunale non si sia mai tenuta in considerazione la questione dei soldi dell’assicurazione di Chiara Marino. Se n’è parlato forse in una delle udienze iniziali, se n’è accennato solo in un paio di articoli di giornale prima che l’ossessione satanica via cavo occultasse ogni tentativo di analisi razionale, prima che le dichiarazioni di Volpe sommergessero i fatti di incongruità, illazioni, insinuazioni gratuite e inutili spacciate per verità.
Ma poi i soldi, che motivazione banale. Chissà di quanto lavoro sarebbero stati privi degli onesti cittadini, su cosa avrebbero disquisito onesti opinionisti e giornalisti, a toglier loro di sotto il naso questo nuovo e succulento marchio de “le Bestie di Satana”.

mercoledì 3 marzo 2010

Il Social Network ci sopravvivrà


Facebook a una prima analisi può essere considerato poco più che un che un gioco di ruolo collettivo per adulti, con regole tutto sommato semplici e che, come spesso succede, viene demonizzato e caricato di aspettative agli esordi, per essere infine accettato e perdere gran parte del suo fascino in seguito.
Ma Facebook non si analizza, si vive.

Si entra dentro Facebook fondamentalmente perché gli altri ti trascinano.
Alla centesima volta in cui ti viene chiesto se sei su Facebook e ti accorgi che nessuno si scambia più i numeri di telefono, ad esempio. Ma poi, perché dovrebbero? E' molto più facile e indolore cancellare dal pc un contatto che diventa sgradito, piuttosto che infilarsi nella trafila per cambiare numero di cellulare. Nel frattempo, ti sei già accorto da un pezzo che gli amici si passano informazioni di cui sei costantemente all'oscuro e che vengono organizzate serate in tempi record senza che tu ne sappia nulla, se non all'ultimo minuto e solo perché qualche anima pia si ricorda di te, povero non-connesso. E anche tu ti convinci che in fondo, visto che si può evitarlo, non c'è motivo di arricchire le compagnie telefoniche continuando a scambiarsi gli sms più cari d'Europa.

Gli stessi amici continuano a infierire, raccontando cosa si sono detti in chat con il vostro comune ex compagno di classe che si è trasferito a Londra, e ti accorgi che anche a te farebbe piacere risentirlo. Anche se non lo pensavi da anni.
Tutti poi hanno visto le fotografie della serata che avete trascorso insieme, o il figlio appena nato dell'amica che sta a Roma. Tutti commentano ciò che ha scritto qualcun altro nel suo status o il video che hanno condiviso. Tranne te.

E alla fine ti iscrivi. Sì, poi sei costretto a ridere a denti stretti quando i comici in tv dicono cose divertentissime tipo: “Ma se non ci sentiamo da 20 anni ci sarà una ragione, perché ti devo volere come amico su Facebook???” Risate del pubblico. Tutti privi di account Facebook? Ma niente affatto. Si ride di sé stessi, ma tutti quelli fra il pubblico che hanno il loro account avrebbero voglia di dire all’ennesimo comico dell’ennesimo programma cabarettistico clone di tutti i precedenti, almeno un paio di cose. Intanto, che possono essere davvero molti i motivi per cui ci si perde di vista e se c’è il modo di poter riallacciare non è raro avere belle sorprese.
E poi, per favore, basta con questa “satira” indolore e ripetitiva, con l’eterna messa in scena dell'italiota 'gnurante ma di buon senso, che al posto di rivelare banalizza.

La forza di Facebook è in questa sua propagazione inarrestabile. Forse è l'idea del profilo ad essere accattivante, la possibilità di creare una propria pagina dove condividere i propri gusti, le passioni, gli album fotografici. Una sorta di blog, ma con meno pretese e disponibile a tutti. Chiunque infatti può essere trovato o chiedere l'amicizia a un altro, non c’è bisogno di conoscere un link specifico, ma solo sapere un nome e un cognome. C’è una sorta di fascinazione, nel cercare e nell’essere cercati, nell’ignorare o approvare un’amicizia.

Facebook è anche un mezzo per incontrarsi, per passare dal virtuale al reale. Gli “amici”, ossia i contatti di chi ha creato un proprio account, possono essere centinaia, ma poi la cernita è inevitabile, come nella vita reale. Alla fine ci si scambia messaggi e si organizzano eventuali incontri solo con pochi, i più affini, mentre tutti gli altri saranno semplici spettatori di ciò che scorre nella nostra vita, anzi, di ciò che decidiamo di caricare on line, della nostra vita. Una sorta di taglia e cuci creativo, una vetrina emozionale. Con la consapevolezza che molti ben presto si stuferanno talmente tanto che sceglieranno l'opzione “Nascondi” per non visualizzare più le nostre news sulla loro homepage. Sempre che non lo abbiamo fatto prima noi.

E' un gioco per adulti, dicevamo, che ha una sua utilità e anche una sua futilità intrinseca. Rappresenta molto e molto poco allo stesso tempo. Se partiamo dal molto, può aiutarci a focalizzare alcuni aspetti che caratterizzano la società contemporanea: ad esempio, che i giovani adulti 30-40enni (ossia la gran parte degli utenti di Facebook) hanno tutta l'intenzione di continuare a giocare ad libitum e non riescono a trovare nessun motivo per pensare che è ora di smettere. Un pessimista estremo direbbe che lo stesso avveniva sul Titanic, con l'orchestra che continuò a suonare fino al naufragio, dopo aver incocciato l'iceberg.
Se partiamo dal molto poco, ci basta la sua definizione standard, che è quella di “Social Network”: semplicemente un modo per mantenere e/o ampliare i propri contatti sociali.

Ma è chiaro che Facebook rappresenta ai suoi massimi livelli anche l'attuale ossessione per la comunicazione di sé stessi. Questo desiderio di mostrare i propri viaggi, le proprie foto, i propri pensieri, e di annettere un gran numero di “amici” con cui condividere il tutto, parte dall'ansia dell'individuo atomizzato, sperduto nella società, orfano di spazi di aggregazione e identità collettive, ideologiche e non, che sente di esistere davvero solo tramite la propria immagine inviata nell'etere e i contatti che acquista on line.
Sono connesso, quindi esisto. Posso lanciare il mio sasso nello stagno, la mia bottiglia col messaggio nel mare di Internet, che non butta via niente. Un giorno qualcuno, con una banale chiave di ricerca, vedrà una mia foto, un mio scritto. Si tratta di lasciare una traccia, mica robetta.
Internet ci sopravvivrà.

La privacy è a rischio, certo. C’è chi parla di schedatura volontaria di massa. Molti utenti non conoscono le precauzioni basilari per condividere le informazioni proteggendo la privacy, evitando di dare in pasto tutti i propri dati a chiunque si affacci online. Eppure, l'ansia di partecipare, di esserci, fa correre il rischio. Un rischio virtuale, ma fra virtuale e reale il confine non è mai stato così labile. All’altro estremo, ci sono i dietrologi, convinti che la Cia o chi per lei rastrelli ogni dato per tenerci d’occhio tutti quanti, ergo non si iscriverebbero mai.

Una delle caratteristiche di Facebook più analizzate dai media riguarda i gruppi che si creano su tematiche socio-politiche e le polemiche che molti di questi si portano dietro trascinano con sé.
Non è raro che titoli di giornale e analisi sociologiche, per riempire i vuoti, prendano a campione questi gruppi con lo scopo di mostrare le tendenze della popolazione “connessa”, identificata un po’ arbitrariamente con i “giovani”. Così Ed ecco che ai giovani, con poco sforzo, pare di esercitare una sorta di influenza sulla società. Ma anche questa, alla fin fine, è virtuale, eppure concreta allo stesso tempo, tanto quanto lo possono essere i titoli di giornale e coloro che li leggono.

Facebook riesce anche a creare veri e propri eventi, che spaziano dalla tanto bistrattata cena di ex compagni di classe a iniziative culturali, commerciali e agitazioni di protesta basate sul tam tam della rete. Ecco così scomparire il classico volantinaggio dei gruppi politicizzati dagli anni '60 in poi, sostituito dal “flyer” digitale, a costo zero, che mantiene il suo scopo originale in alcuni casi, ma più spesso si è venduto per scopi commerciali e promozionali.

E’ certo abbastanza ingenua la definizione di “realtà” virtuale, che alienerebbe le persone disincentivando il contatto umano. Da questo punto di vista, si potrebbe obiettare che la televisione, che offre spettacoli di cui lo spettatore fruisce passivamente, in completa solitudine perlopiù e senza possibilità di interagire, possa essere considerata altrettanto colpevole, se non di più.
La stessa gente che si abbruttisce davanti al piccolo schermo spesso demonizza Internet, che rovinerebbe i giovani.
Ma perlomeno, se anche questi ultimi passano le ore al computer, sono obbligati a mettere in moto qualche neurone per poter digitare pensieri sulla tastiera e interagire con persone lontane, conosciute oppure no. Facebook non è una realtà, ma una piattaforma per condividere contenuti: e se vuoi partecipare, i contenuti da qualche parte te li devi andare a cercare o partorirli ex novo.

mercoledì 10 febbraio 2010

Chirurgia estetica e civiltà della rimozione


Ancora vent'anni fa, la chirurgia estetica di cui si aveva notizia fra i comuni mortali era limitata alla correzione del naso o delle orecchie a sventola. Si pensava, se proprio c'è qualcuno che ha un tale complesso del naso da sopportare di farselo martellare via per poi ritrovarselo scolpito alla francese, non c'è molto da eccepire. Senza contare che la chirurgia estetica nasce per rendere servizi meritevoli: corregge labbri leporini, setti nasali deviati, malformazioni che creano disagio fisico e/o psicologico; rimedia a offese del corpo, procurate da incidenti o malattie.

Ma è evidente che nasce come estrema ratio a problemi reali, non indotti. E che è invece diventata ben presto la corte dei miracoli dell'intero baraccone mediatico.

Dove una volta c'erano bagni con latte d'asina (o sangue di vergine assassinata, se ti chiamavi Elizabeth Bathory) e filtri d'amore, ora ci sono il bisturi e le iniezioni di botulino. Le vergini e le asine ringraziano, ma certo si è perso molto in termini di mistero e di magia.

Se ne è guadagnato però in risultati. Madonna potrebbe sembrare nonna con i suoi 50 anni, invece appare ancora come la zia più grande che si mantiene in forma. Questo è rassicurante per tutti, perché i segni del tempo sono offensivi, scandalizzano.

Abbiamo bisogno di rassicurazioni che siano allo stesso tempo rivoluzionarie e piccine.

Le signore dell'alta società, danarose e avanguardiste, avevano già iniziato a farsi impiantare protesi al seno negli anni Sessanta, ma la cosa veniva taciuta. Fino a quando una protesi non fosse esplosa ad alta quota, nessuno ne avrebbe saputo mai niente. E si tacitavano le domande maliziose con la menzogna imbarazzata, raccontando di cure ormonali miracolose o sviluppi tardivi.

Poi improvvisamente, sotto i nostri occhi la chirurgia estetica diventa un’ossessione di massa.

Gli interventi correttivi non conoscono più limiti: dal seno all’addome, passando per le natiche, le borse sotto gli occhi e la cancellazione delle rughe. Qualsiasi sia la fascia sociale di appartenenza, nessuno si nega più per principio un finanziamento rateizzato per una parte del corpo nuova, quasi fosse un lusso necessario, se si passa la contraddizione in termini.

Sembra davvero molto lontano il tempo in cui erano le attrici e le esponenti del jet set a coltivare l’ossessione per il proprio aspetto, lasciapassare per una carriera e una visibilità il più lunga possibile (ed erano sempre loro a rinchiudersi in casa e non farsi più vedere in pubblico quando la beltà le abbandonava definitivamente). Queste infelici erano le uniche a intristirsi oltre misura per la loro avvenenza perduta, a non reggere il confronto con un mondo che non le guardava più ammirato e non stendeva più il tappeto rosso al loro passaggio, ma al limite gli cedeva il posto sul tram.

Tutte le altre, più pragmatiche o meno dotate da Madre Natura, che non avevano conosciuto i sospiri degli ambasciatori e degli uomini del bel mondo, entravano nella fase della matrona e se la vivevano in tutta tranquillità, pure con un certo sollievo per essere finalmente esonerate dall’imbellettamento e dal confronto obbligato con le altre donne.

Incredibilmente, oggi è la gente comune ad ingaggiare la stessa lotta contro il proprio corpo. Senza nessuna ragione plausibile, di colpo il comune cittadino, ma più precisamente la comune cittadina, sente di dover corrispondere lo stesso standard estetico una volta confinato agli dei dell'Olimpo - le star del cinema, della musica e della televisione - in cambio di non meglio specificati benefici sociali. E il grande inganno sta tutto nella frase che ogni aspirante al bisturi ripete, che come un mantra rimbalza dalle riviste femminili ai salotti televisivi: “Lo faccio per me stessa, per sentirmi più a mio agio col mio corpo”.

La cura estrema di sé si rivela un business tanto più lucroso quanto più fondato sulle insicurezze delle donne, che sono potenzialmente infinite. Insicurezze che vengono nutrite da quella che possiamo definire società di Photoshop, mutazione della ormai datata società delle immagini.

La perfezione estetica richiesta in particolare alle donne è uno dei tanti frutti avvelenati riservati all'altra metà del cielo nell'arduo cammino del post femminismo. Sembra che ogni conquista femminile sia stata nel tempo castrata e trasformata nel suo opposto, senza che le donne fossero in grado di opporre una reale resistenza. Nelle ragazzine il senso di inadeguatezza è talmente radicato che arrivano a richiedere un seno nuovo come regalo per i 18 anni e gli adulti le accontentano.

La liberazione del corpo è stata sapientemente guidata fino all’ossessione per la perfezione fisica.

Va ricordato che le donne di tutte le epoche hanno sempre rincorso il sogno di essere le più belle del reame, una delle rare occasioni di potere femminile (che non a caso, pone le donne in competizione l'una contro l'altra). Allo scopo, avevano dalla loro tutta una serie di trucchi e di astuzie per tenere a bada le ingiurie del tempo e i difetti. I cosmetici, l’abito, l'acconciatura, le luci. Ma era una messa in scena, una recita. E per quelle poche fra loro che ricercavano l’autenticità a scapito dell’apparenza, ha parlato per tutte Anna Magnani, quando disse al suo truccatore che voleva coprirle le rughe prima di una scena: “Lasciamele tutte. Ci ho messo una vita a farmele venire”.

Va da sé che ci vuole tempra, per tenersi le rughe, con tutto quello che rappresentano.

Ma l’attuale impermeabilità alla vecchiaia è totale. La vecchiaia è troppo prossima alla morte per essere contemplata nella società di Photoshop, che è anche e soprattutto società della rimozione.

Ma se la vecchiaia non riesce a raggiungerci più neanche nella rappresentazione, è molto difficile imparare a gestirla, a considerarla una fase della vita da affrontare coi mezzi che abbiamo a disposizione e probabilmente crolleremo quando ci si presenterà davanti. Correremo a farla rimuovere, dolorosamente, dal bisturi. Non ci daremo pace.

Dove sono finite le Titine de Filippo, le sore Lelle? L’espressività di un’attrice può essere sacrificata in cambio di un volto levigato? Perché ci sono stangone mummificate e inguainate a presentare i programmi televisivi e mai vecchine coi capelli azzurati? Ma le signorine buonasera che sembravano rassicuranti zie, dove sono?

Sarebbe bello avere modo di abituarsi di nuovo alla realtà. Per favore.